Federico Zoja, Avvenire 16/6/2013, 16 giugno 2013
ROHANI, IL PROFILO DEL VINCITORE
Uguaglianza fra i cittadini, parità fra uomini e donne, liberazione dei prigionieri politici, rispetto delle libertà fondamentali, giustizia sociale. Con questi concetti, assenti dalle campagne elettorali degli altri sei candidati presidenti della Repubblica, Hassan Rohani, 64 anni (12 novembre 1948), unico religioso in lizza, ha convinto l’elettorato iraniano moderato, riaccendendo la speranza nel cambiamento brutalmente soffocata dalla repressione del 2009. Rohani non è certo un uomo esterno all’establishment, altrimenti la sua candidatura non avrebbe avuto speranze di fronte alla falce del Grande ayatollah Ali Khamenei: accademico, ricercatore, membro dell’Assemblea degli esperti e del Consiglio dei sapienti – tutti consessi di saggi religiosi sciiti –, ex segretario del Consiglio supremo per la sicurezza nazionale, diplomatico di caratura internazionale, il nuovo presidente è legato a Khamenei a doppio filo, avendo ricoperto ruoli di controllo sia nella Difesa sia negli Affari esteri. Come dire, alle redini della Repubblica islamica, potente fra i potenti.
Eppure, la moderazione di alcune sue posizioni, la relativa autonomia di giudizio e la lucidità dimostrata nel riconoscere la gravità del frangente economico-sociale, gli hanno valso il supporto degli ex presidenti Akbar Hashemi Rafsanjani e Mohammad Khatami, di cui è stato stretto collaboratore. Il cammino di Rohani inizia con gli studi religiosi, negli anni ’60; in parallelo, c’è l’attivismo politico, in opposizione allo scià, come la maggior parte dei suoi coetanei. E come tutta la sua famiglia, formata da commercianti della città di Semnan. Abile oratore, nemico di monarchia e Occidente, Rohani stima l’ayatollah Ruollah Khomeini e lo raggiunge in esilio a Parigi, nel 1977: Khomeini lo recluta fra i suoi fedelissimi. Laureato in legge presso l’università di Teheran nel 1972, il nuovo presidente iraniano conosce il “nemico” occidentale per esperienza diretta, avendo completato gli studi all’estero: vanta infatti un master alla Glasgow Caledonian University, seguito da un dottorato sull’esperienza della rivoluzione islamista iraniana.
Dopo la rivoluzione, nessuna stanza del potere gli è preclusa: l’esercito, di cui ha seguito la riorganizzazione; il nuovo Parlamento, di cui è stato membro; la televisione di Stato, a lungo supervisionata proprio da lui. I legami con Rafsanjani hanno radici lontane, durante la guerra con l’Iraq, nel periodo 1980-88.
La comunità internazionale ha conosciuto il suo volto nel 2003, un anno dopo che il programma iraniano è stato svelato e l’Iran ha deciso di accettare una sospensione temporanea per evitare sanzioni dal Consiglio di sicurezza Onu (presidenza Khatami): allora, Rohani ha condotto personalmente i negoziati a Bruxelles, Ginevra e New York. Il suo ruolo di mediatore nucleare è durato 16 anni, attraverso tre diverse presidenze. Poi, le dimissioni brusche, il 15 agosto del 2005, sia da negoziatore per il nucleare sia da capo del Consiglio supremo per la sicurezza nazionale, a causa delle opinioni divergenti con il presidente uscente Mahmud Ahmadinejad, contrario a qualsiasi concessione all’Occidente. Il suo successore, Ali Larijani, si è subito allineato sulle posizioni di Ahmadinejad, mentre Rohani non ha mai nascosto l’avversione per il nuovo gruppo di potere.
In campagna elettorale, Rohani ha ribadito più di una volta che «il nucleare non è la priorità, la ripresa economica sì» e che sarebbe stata sua cura, una volta eletto, trovare «una interazione costruttiva con il mondo»: per questo, con lui l’Iran potrebbe ora uscire dall’incubo dell’isolamento internazionale. E forse anche il conflitto siriano trovare un sbocco politico.