Stefano Lorenzetto, il Giornale 16/6/2013, 16 giugno 2013
Il Giornale, 16 giugno 2013 Che quel figlio sarebbe stato destinato a volare alto, papà Annuto lo capì quando il piccolo Giancarlo aveva appena 5 anni ed era sfollato con la famiglia a Colle Umberto, nel Trevigiano
Il Giornale, 16 giugno 2013 Che quel figlio sarebbe stato destinato a volare alto, papà Annuto lo capì quando il piccolo Giancarlo aveva appena 5 anni ed era sfollato con la famiglia a Colle Umberto, nel Trevigiano. Appena cominciava a ululare l’allarme aereo, anziché rintanarsi negli edifici contrassegnati dalla sigla RC (rifugio cantina), oppure accucciarsi sotto l’architrave del camino, o appiattirsi sull’argine del primo fosso trasformato dall’emergenza in trincea, il bimbetto scappava di casa e correva incontro alle squadriglie alleate che dal cielo mitragliavano le colonne tedesche in ritirata verso la Germania lungo la strada fra Conegliano e Vittorio Veneto. «Per me il rombo degli Spitfire era musica», rievoca oggi Giancarlo Zanardo, 73 anni. «I bombardieri sganciavano l’ordigno, rallentavano, scendevano giù in picchiata per accertarsi d’aver colpito il bersaglio e scomparivano all’orizzonte. Solo il sibilo del Pippo, l’aereo da caccia che di notte lanciava spezzoni incendiari ovunque vi fosse una luce accesa, riusciva a terrorizzare anche me». Ma l’episodio che più d’ogni altro ha segnato la vita di Zanardo accadde a guerra finita. «Frequentavo la seconda elementare. Andammo in gita scolastica a Nervesa della Battaglia, dove c’è il sacello che ricorda il punto in cui Francesco Baracca il 19 giugno 1918 fu abbattuto dagli austriaci, mentre mitragliava i ponti di barche sul Piave per impedire l’avanzata dell’esercito austroungarico. E lì, davanti al cippo con l’iscrizione “Qui cadde il maggiore Francesco Baracca, asso degli assi”, pensai: un giorno diventerò pilota e volerò con un aeroplano uguale al suo». È stato di parola con se stesso. A 60 anni di distanza dalla solenne promessa fatta nel luogo in cui fu combattuta la Battaglia del solstizio, Zanardo ha sorvolato il sacrario alla cloche di uno Spad XIII, un caccia monoposto biplano identico a quello di Baracca. Solo che questo esemplare non è uscito dalle officine della Société de production des aéroplanes Deperdussin, anche perché hanno chiuso un secolo fa: se l’è costruito interamente da solo. Una copia perfetta, indistinguibile dall’originale, con tanto di cavallino rampante dipinto sulla carlinga. «Baracca proveniva dalla cavalleria del Regio esercito, ecco perché l’aveva scelto come simbolo», racconta Zanardo. «Sua madre, la contessa Paolina Biancoli, nel 1923 autorizzò Enzo Ferrari a utilizzarlo, dicendogli: “Lo metta sulle sue auto, le porterà fortuna”. L’unica variante è nella coda: rivolta verso l’alto sullo Spad, verso il basso sui bolidi di Maranello». Dopo un intero anno di duro lavoro, giorno e notte, senza badare a festività e ferie, la solitaria maratona di costruttore aeronautico avrebbe dovuto bastargli. Invece l’incorreggibile ragazzino che ancora s’annida in Zanardo ha avuto il sopravvento. Approfittando della pensione (da imprenditore ha creato con i quattro fratelli uno stabilimento di vernici che conta 150 dipendenti), si è costruito, sempre da solo, altri sei velivoli, tutti regolarmente omologati dall’Ente nazionale per l’aviazione civile, diventando così il proprietario della più strabiliante collezione di aerei d’epoca faidaté. Talmente perfetti che la Repubblica di San Marino, nel 100° anniversario del primo volo a motore, ha riprodotto le immagini di due dei suoi velivoli sui francobolli da 0,36 e 0,41 euro. Se si aggiunge un autogiro Bensen e un elicottero Scorpion in kit, «una sedia volante», assemblati nel 1967 e nel 1971, in tutto fanno circa 25.000 ore di lavoro, cioè 12 anni trascorsi in fabbrica da un metalmeccanico. Per non parlare del cospicuo investimento economico: almeno 15.000 euro solo di materiali per ciascun aereo. E non è ancora finita. Siccome non può più librarsi nei cieli d’Europa sullo Spad di Baracca, ora esposto nel museo del Piave che ha sede a Caorera di Vas, Zanardo ha pensato bene di fabbricarsene un altro. I lavori sono cominciati nel 2011 e finiranno l’anno prossimo, quando l’intrepido aviatore compirà un raid di 6.000 chilometri, toccando varie capitali d’Europa, per celebrare il centenario dell’inizio della Grande guerra. Lo scorteranno gli altri apparecchi usciti dalle sue mani, pilotati per l’occasione da amici, radunati nella Jonathan collection da lui fondata, l’unica Onlus di questo tipo esistente in Italia, un’associazione di filologi che custodisce le macchine volanti in un hangar originale della prima guerra mondiale, a Nervesa della Battaglia. A casa, ad aspettare in ambasce il ritorno di Zanardo, c’è sempre la moglie Paola, sposata nel 1960. La signora non poteva reprimere la passione dell’audace marito, ma perlomeno è riuscita a evitare che la trasmettesse ai loro tre figli. «Ho cominciato a volare per non morire. Sono vivo, ma non dovrei esserlo», dice lui. Sia meno criptico. «Nel 1970 volavo con l’autogiro al mare, a Bibione. Un giorno, mentre lo stavo caricando sull’auto per riportarlo a casa, s’è spezzato un cavo d’acciaio e m’è caduto addosso insieme col paranco. Scatola cranica fratturata, labirinto schiacciato. Mesi d’ospedale, sordità, due anni di esaurimento nervoso. Alla fine mi sono chiesto quale fosse lo scopo della mia vita. E mi sono dato una risposta: volare. Anche se non stavo in piedi». Ha prestato il servizio militare? «Fui esonerato perché a 20 anni ero già sposato e padre». Però la chiamano comandante. «Ho il brevetto di pilota dal 1966, con all’attivo 2.500 o 3.000 ore di volo, ormai mi dimentico di segnarle. Chi è a bordo di un aereo come pilota, ipso facto diventa comandante. Lo stabilisce la legge. In volo potrei persino celebrare matrimoni nella veste di pubblico ufficiale». Mi parli dei suoi aeroplani. «Il primo che ho ricostruito tale e quale è stato il Fokker Dr1 di Manfred von Richthofen, il Barone rosso, leggenda dell’aviazione tedesca, morto a 25 anni sul fronte francese dopo aver totalizzato 80 abbattimenti. Quando i nemici vedevano profilarsi all’orizzonte il triplano rosso, scappavano, dunque si può dire che col suo ardimento von Richthofen evitò molti inutili spargimenti di sangue. Ho usato il Fokker per ripetere il volo su Vienna il 9 agosto 1988, nel 70° anniversario di quello compiuto da Gabriele D’Annunzio. Lui lanciò proclami lirici, che poi erano comunicati sindacali; io ho gettato spartiti di Johann Strauss. Alla poesia ho risposto con la musica». Il secondo aereo? «Il monoplano Blériot XI-2 che compì la prima trasvolata della Manica nel 1909. L’ho rifatta 80 anni dopo, da Calais a Rochester. Il terzo è stato il Flyer 1-1903 dei fratelli Wright, quello del primo volo nella storia dell’umanità, avvenuto il 17 dicembre 1903: percorse appena 12 metri a pochi centimetri dal suolo. Ho commemorato il centenario della ricorrenza col mio Flyer, nello stesso giorno e alla stessa ora, a Guidonia, con le Frecce tricolori che sfrecciavano sopra di me. C’erano due scienziati venuti apposta dalla Nasa per vedermi. Deve sapere che il Flyer originale volò per puro caso, tant’è che alla celebrazione dei 100 anni non riuscirono a farlo decollare davanti al presidente George Bush. Invece col mio ho coperto un chilometro staccandomi da terra di 5 metri». Veniamo al quarto aereo. «La replica del Mustang P-51D statunitense, il più bel caccia della seconda guerra mondiale. Per non svenarmi sono stato costretto a ridurne le dimensioni del 20 per cento. Consideri che un Mustang vale, come residuato bellico, dal milione di euro in su». Il quinto? «Il Caproni Ca.3, bombardiere trimotore della Grande guerra, con cui il 30 dicembre 1917 caddero sul fronte del Piave i piloti Maurizio Pagliano e Luigi Gori, ai quali è oggi intitolata la base aerea di Aviano. Il mio scopo è ricordare gli eroi che hanno dato la vita per la patria». Ne dimentichiamo qualcuno? «A parte i due Spad di Baracca, un paio di Caproni e alcuni restauri non destinati al volo, ho ripristinato un biplano Tiger Moth originale, aereo d’addestramento in dotazione alla Raf britannica negli anni Quaranta. Nel 1985 l’ho adoperato per un raid in solitario di 5.000 chilometri attraverso il Belpaese, isole comprese. Ma l’ho usato anche dall’Italia all’Inghilterra, e ritorno, per partecipare a un airshow a Redhill». I progetti originali da chi li ha avuti? «Per il Ca.3 dalla contessa Maria Fede Caproni, figlia dell’ingegner Gianni Caproni. Per il Flyer dei fratelli Wright e per il Blériot dalla Smithsonian institution del governo degli Stati Uniti». La riproduzione che le è costata più tempo e fatica? «Il Mustang. Una macchina complessa che raggiunge i 650 chilometri orari in affondata e i 350 in velocità di crociera». E lei ogni tanto si fa un voletto. «Nei giorni scorsi ho sorvolato il sacello di Baracca nell’anniversario della nascita. La domenica, con gli altri amici della Jonathan collection, spesso simuliamo battaglie aeree». Ora è pronto per il tour sull’Europa con cui il 28 luglio 2014 commemorerà l’inizio della Grande guerra. «Saremo una trentina di piloti, porteremo un messaggio di fratellanza. In 20 giorni toccheremo tutte le capitali del continente. Abbiamo dovuto escludere Mosca perché in Russia ci sono grosse difficoltà di rifornimento. E anche per motivi economici. L’amico Roberto Tomadini, presidente del Lions di Nervesa della Battaglia, sta contattando tutti i club del Vecchio Continente in modo da farci ottenere almeno l’ospitalità». Che autonomia hanno i suoi aerei? «Due ore con un pieno di 150 euro». Deve atterrare spesso per rifornirsi. «In Italia non c’è problema. Vi sono un centinaio di aeroporti per il traffico turistico e ben 400 aviosuperfici. Durante il periplo della penisola ho avuto l’onore d’essere autorizzato all’atterraggio persino a Fiumicino, al Leonardo da Vinci». Protetto solo da casco in pelle, giubbotto e foulard, farà freddo lassù. «Tutti gli aerei sono aperti, tranne il Mustang. Possono salire fino a 5.000 metri, ma di solito volo intorno ai 1.000. Per andare in Inghilterra, già a 2.500 metri sono riuscito a varcare le Alpi. Calcoli che salendo la temperatura cala di 0,7 gradi ogni 100 metri. Quindi, se al suolo ci sono 30 gradi, a 5.000 metri il termometro segna meno 5. Meglio volare bassi». Ma sono sicuri questi velivoli? «Le uniche modifiche che ho apportato rispetto agli originali riguardano proprio l’affidabilità di motore, freni e ruotino di coda, che un tempo era un pattino, visto che si atterrava nell’erba». E se il motore si spegne per un’avaria? «M’è capitato due volte e me la sono sempre cavata. A un’altezza di 300 metri si possono percorrere senza motore altri 5-6 chilometri. A Roncade ho planato senza danni in un campo d’erba spagna a 80 all’ora. Tutti gli aerei, esclusi i jet, atterrano col motore al minimo. Se fosse spento, sarebbe anche meglio». Ai comandi di uno dei suoi caccia ha mai provato la voglia di sparare? «Nelle rievocazioni storiche si fa per finta, affinché il pubblico a terra comprenda meglio il clima dell’epoca, il modo di pilotare e di combattere. Ma non vorrei passare per uno fuori di testa». Nella mia città un monumento ricorda il primo bombardamento aereo della Grande guerra a opera dell’Austria, 14 novembre 1915, quando dal cielo «piovve barbaro fuoco su placida vita d’inermi». Non è un po’ triste celebrare questi che furono, in fin dei conti, strumenti di morte? «Celebro l’eroismo dei soldati, non l’orrore della guerra. Sa quale durata media aveva la vita di un pilota da caccia in tutti gli eserciti belligeranti tra il 1914 e il 1918? Una settimana. L’aviazione italiana ne perse da sola ben 1.000». Capisco i fanti all’assalto con la baionetta, ma che cosa c’è di eroico nel bombardare dall’alto il nemico o la popolazione civile? «Purtroppo in guerra chi più ne inventa più ha ragionevoli probabilità di farla cessare. Pensi solo all’orrore della bomba atomica su Hiroshima». Quant’è vivo dalle sue parti il ricordo della Grande guerra? «È molto vivo. Ci sono ben 40 musei tematici. Il Piave resta ancora nella segnaletica “fiume sacro alla Patria”. A Nervesa della Battaglia resiste la trattoria Città dei Ragazzi del ’99 e a Volpago del Montello l’osteria Cippo degli arditi». Ma che cosa sanno le nuove generazioni della tragica epopea? «Poco. A 10 anni, quando vengono in gita con la scuola, sono molto attenti. Ma poi... Telefonino e sigaretta. Con la Provincia di Treviso stiamo per installare due simulatori di volo sullo scenario della Battaglia del solstizio. Una specie di videogioco. Quello magari gli interessa». Stefano Lorenzetto LORENZETTO Stefano. 56 anni, veronese. È stato vicedirettore vicario del Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café per la Rai. Scrive per Il Giornale, Panorama e Monsieur. Ultimo libro: Hic sunt leones (Marsilio). LORENZETTO Stefano. 56 anni, veronese. Prima assunzione a L’Arena nel ’75. È stato vicedirettore vicario di Vittorio Feltri al Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café per la Rai. Scrive per Il Giornale, Panorama e Monsieur. Tredici libri: La versione di Tosi e Hic sunt leones i più recenti. Ha vinto i premi Estense e Saint-Vincent di giornalismo. Le sue sterminate interviste l’hanno fatto entrare nel Guinness world records.