Claudio Gallo, La Stampa 17/6/2013, 17 giugno 2013
C’ è
una battuta che gira a Teheran: «Un uomo, un voto e quell’uomo è Khamenei». Il grand’ayatollah di 73 anni, che guida l’Iran dalla scomparsa di Khomeini nel 1989, nonostante un potere quasi assoluto, non sembra essere riuscito neanche stavolta a imporre compiutamente la sua volontà politica. Merito in parte dei frammenti democratici contenuti nella costituzione teocratica. Certo il Consiglio dei guardiani aveva scremato sei candidati su seicento, eliminando dalla competizione elettorale un padre della rivoluzione come Rafsanjani e il candidato di Ahmadinejad, Mashaei. Insomma, comunque finisse non ci sarebbe stato tra i piedi un rompiscatole come Moussavi, una personalità troppo ingombrante come l’ex presidente o un lunatico come Ahmadinejad. Ma Rohani, che pure ha rappresentato la Guida ai vertici della sicurezza, probabilmente non è stato il nome che Khamenei ha scritto sulla scheda. Dicendo, è vero, «per favore signore», l’ex negoziatore nucleare chiede pur sempre il cambiamento.
Riguardando il film delle elezioni, molti dettagli lasciano trasparire un’incertezza o una carenza di controllo da parte della Guida Suprema, che da tempo si dice abbia gravi problemi di salute. Perché per esempio lasciare che Rafsanjani si candidasse per poi bocciarlo? Il progetto di riunire i conservatori sotto un’unica candidatura è fallito clamorosamente, lasciando i campioni dell’apparato a beccarsi nei dibattiti televisivi come i polli di Renzo.
«Se si parte dalla certezza che tuttonella politica e nella strategia iraniana è manipolato da un solo uomo - osserva Gary Sick, analista americano della politica iraniana che ha servito nel Consiglio per la sicurezza nazionale con diversi presidenti - allora bisogna spiegare perché egli debba comportarsi così stranamente, spesso contraddicendo i propri interessi, in diverse circostanze».
L’era Rohani comincia (tra due mesi) all’insegna dell’insofferenza di buona parte della popolazione per il «nezam», l’apparato. Il potere è però riuscito a incapsulare quella protesta, perché di fatto l’uomo che dovrebbe darle voce è un veterano del «nezam». La Guida Suprema e l’apparato, anche se in difficoltà, hanno una carta cruciale. «Possono essere incapaci di persuadere o ispirare - spiega Sick - ma possono bloccare qualsiasi cosa minacci le loro prerogative. La loro capacità propositiva sarà debole, ma hanno un enorme potere di veto».
In questa groviglio di rapporti di potere, il nuovo presidente, oggi atteso alla prova della prima conferenza stampa, dovrà cercare un accordo sul nucleare con Washington di cui il primo atto conseguente dovrebbe essere la sostituzione del negoziatore massimalista Jalili. Per realismo, perché senza un’intesa con «l’impero» non sarà possibile risollevare l’economia fiaccata dalle sanzioni internazionali. Nell’incontro di ieri col presidente del parlamento Larijani, Rohani sembra aver avuto un primo via libera. È importante, perché in Iran contro il Majlis non si governa, Ahmadinejad ne sa qualcosa. Ogni giudizio è ancora prematuro, sarà cruciale la scelta dei ministri. Dalla squadra si comincerà a capire qualcosa delle reali intenzioni del presidente.
Ma i matrimoni si fanno in due, in questi sessanta giorni sarà importante se l’America deciderà di tenere con Teheran un basso profilo, per non bruciare subito Rohani. Mentre il responsabile stampa della Casa Bianca aveva usato i soliti toni predicatori, citando la «mancanza di trasparenza e la censura» nel voto (per altro in pieno scandalo Nsa...), ieri il capo dello staff McDonough ha parlato di «potenziale segnale di speranza» e ha detto che l’America è pronta a trattare. La partita ricomincia.