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 2013  giugno 17 Lunedì calendario

U n classico, diceva Italo Calvino, è un testo che non ha mai finito di dire quel che ha da dire. Lo sanno i filologi e lo sanno i critici: una grande opera della letteratura non è mai completamente compresa e il loro è un lavoro di continua approssimazione a un oggetto in fondo imprendibile quanto imperdibile

U n classico, diceva Italo Calvino, è un testo che non ha mai finito di dire quel che ha da dire. Lo sanno i filologi e lo sanno i critici: una grande opera della letteratura non è mai completamente compresa e il loro è un lavoro di continua approssimazione a un oggetto in fondo imprendibile quanto imperdibile. Ecco spiegato perché, a settecento anni dalla nascita di Giovanni Boccaccio, non ci si può accontentare di quel moltissimo che è stato detto sul Decameron. Ci si metta poi il baratro di comprensione sempre più largo tra le competenze linguistiche e culturali d’oggi e la struttura complessa di uno straordinario capolavoro della narrativa che appartiene a un mondo remoto. Ecco spiegato perché la Bur ha pensato bene di proporre una nuova edizione commentata del Decameron, a cura di Amedeo Quondam, Maurizio Fiorilla e Giancarlo Alfano: un’edizione che si rivolge a lettori di fasce diverse, con schede tecniche per gli esperti, ma anche con introduzioni e apparati che facilitano l’accesso al testo per un pubblico più ampio. «Il problema delle profonde mutazioni linguistiche di questi ultimi decenni — avverte Quondam, studioso, tra l’altro, del petrarchismo, del Rinascimento e del manierismo napoletano, professore di Letteratura italiana alla Sapienza di Roma — è da tempo all’attenzione sia degli studiosi sia degli insegnanti, in tutto il mondo e, se non fosse qualcosa di molto più profondo che coinvolge forse l’intera economia dei processi comunicativi, potrebbe essere descritto come una fortissima riduzione delle competenze attive e passive, nel lessico e nella sintassi e dunque nella capacità d’intendere frasi complesse. Come italianisti ci siamo posti da tempo questo problema, che peraltro monitoriamo anno dopo anno nelle nostre aule, ed è per questo che da tempo collaboriamo con la Bur a questa nuova serie di classici italiani: per fare la nostra parte nel rendere disponibili ai lettori i grandi libri della nostra tradizione con tutte le mediazioni indispensabili per una loro lettura partecipata e consapevole e magari in grado di entrare in sistemi di senso tanto remoti». Con quali accorgimenti editoriali nel caso specifico? «Dopo mezzo secolo dalla ormai classica edizione di Vittore Branca, abbiamo lavorato a un’edizione che guardasse al nuovo lettore. Per dargli un testo ampiamente rivisto e restituito anche nelle scelte grafiche che furono di Boccaccio, un nuovo commento che non lo lasci mai solo di fronte alle complessità di una lingua letteraria di settecento anni fa, una serie di schede analitiche che di ogni giornata e di ogni novella danno gli opportuni strumenti di lettura senza tecnicismi. L’allestimento di questo Decameron, sempre collegiale, passo dopo passo, è finalizzato a fare capire il testo: premessa indispensabile perché possa essere apprezzato, anche nelle sfumature, come una straordinaria, irripetibile, esperienza narrativa, come invenzione (o meglio: reinvenzione) della forma stessa del narrare, nella sua autonomia anche performativa. Come una delle primarie fondazioni della nostra modernità». L’introduzione sottolinea l’importanza che assume la cornice, in senso statico e in senso dinamico: questa enfatizza il rapporto ambiguo tra verità e finzione, tra oralità e scrittura, tra autore e narratore («l’allegra brigata»), ma soprattutto stabilisce il carattere chiuso dell’opera. «La "cornice" (ma non si potrebbe chiamarla in qualche altro modo?) è l’invenzione dell’autonomia della forma letteraria perché istituisce l’ubi consistam dell’atto narrativo, che è tale se viene detto da qualcuno e ascoltato da altri. In questo modo possiamo dire che Boccaccio non inventa nulla, se trasforma le tante storie disponibili, res nullius, che circolano ai suoi tempi, a tutti o a molti ben note, in atti di parola che devono però trovare un doppio livello di formalizzazione: prima nell’esecuzione verbale da parte dei giovani dell’onesta brigata, poi nella trascrizione d’autore che ne fa un Libro. E si tratta di due fasi che Boccaccio genialmente distingue nel momento stesso in cui le unifica facendosene scrittore. La ricerca del Libro è cosa che ossessiona tanti, dal Dante della Vita nova al Petrarca del Canzoniere: il Decameron intende misurarsi con queste esperienze, facendo qualcosa che non si era mai visto prima, nel campo delle forme brevi della narrazione, dando statuto e forma alla "novella", che neppure quasi esisteva come parola». L’idea di un Boccaccio politicamente «tranquillo» (per non dire pavido), alieno da interessi militanti, contrasta con l’opinione (vulgata) di un Boccaccio «moderno», lo scrittore ipersensibile alla realtà contemporanea. Come si spiega questa apparente contraddizione tra modernità e disimpegno? «La "modernità" di Boccaccio è stata per troppo tempo riferita al grande e glorioso paradigma della nostra identità, al senso della nostra storia nazionale, al mito delle libertà repubblicane dei Comuni e di quell’imprenditoria borghese, mercantile e finanziaria, che sembra far nascere il capitalismo ma finisce subito travolta da secoli di decadenza: quel paradigma che ancora qualche decennio fa poneva la questione della lunga transizione dal feudalesimo al capitalismo, facendo sparire tutta l’età moderna solo perché aristocratica (e classicistica, aggiungo maliziosamente)». E tutta la questione del Decameron che parla alla società mercantile? «A ben vedere, nel Decameron di mercanti ce ne sono invece davvero pochi e non si può certo dire che facciano bella figura. Ci sono invece tanti nobili guerrieri e cavalieri, di antico e corrusco feudo e di nuova cortesia: Boccaccio, che è curioso di tutte le cose del mondo, persone comprese, e che resta sempre legato alla sua lunga esperienza napoletana nella corte angioina, li guarda con evidente simpatia e sembra prospettarli come protagonisti del processo della modernità, in quanto titolari di valori culturali fortemente innovativi». Si sa molto su come lavoravano alcuni scrittori del passato remoto, come, per esempio, Petrarca. Pochissimo del Boccaccio. Si può fare qualche ipotesi sull’elaborazione del «Decameron», sulla scrittura delle singole novelle e sulla progettazione del libro? «Se introducessimo qualche elemento di buon senso nei nostri travagli filologici, potremmo non avere difficoltà a ipotizzare che una raccolta di novelle (Pirandello o Hemingway compresi) non è mai scritta in sequenza e tutta insieme. Questo vale anche per il Decameron, soprattutto in assenza di riscontri obiettivi: e vale anche per il fatidico 1348 della peste che non può certo essere considerato un vincolo insuperabile, tanto più se fa la sua parte, nel Libro, solo nell’introduzione della prima giornata. Domanda: ma i "paratesti" sono scritti prima o dopo dagli scrittori di ogni tempo e di ogni lingua?». Si dice sempre (e a un certo punto lo dichiara lo stesso Boccaccio) che il proposito di dilettare prevale sull’intenzione edificante di istruire tipicamente medievale, però non va dimenticato l’aspetto esemplare delle novelle. Come si coniugano le due cose? «Credo che ci sia un antico equivoco su questo problema, che ci porterebbe a chiederci perché mai proprio su Boccaccio si sia giocata una sottile battaglia tutta ideologica negli anni Cinquanta del Novecento, sulla frontiera della continuità/discontinuità tra Medioevo e Rinascimento. Come se la tradizione dell’esemplarità fosse tutta interna ai modelli e alle pratiche dei "chierici", predicatori in primis come pure teologi, e non riguardasse invece anche la storia della discorsività etica "laica", da Petrarca a Guicciardini, per restare ai nostri moralisti classici. Tutto ciò che si racconta ha un qualche senso e allude ad altro, ma quello che conta nell’esemplarità delle novelle del Decameron è soprattutto la fortissima rivendicazione dell’autonomia del fattore performativo e formale». Lei sostiene che il «Decameron» non avrebbe antenati e neppure eredi nel suo proposito «leggero» di «delectare» e non di «docere». L’unica opera che gli si può avvicinare, da questo punto di vista, sarebbe, secondo lei, l’«Adone» di Giovan Battista Marino, anch’essa svincolata dall’obbligo dell’utilità. La «pesantezza», con buona pace di Calvino, ha segnato la nostra letteratura? «La questione mi sembra decisiva se si vuole capire il senso della nostra tradizione letteraria, cercando di coglierne gli snodi che l’hanno segnata. A metà Trecento le pratiche "letterarie" volgari non sembrano fare sistema. Un secolo dopo mi sembra riconoscibile l’avvio di un sistema che tende a riferire la "letteratura" a cose serie, selezionando ferocemente generi e codici, finanche forme metriche, addirittura ipotizzando che il latino potesse essere la lingua viva di questa res litteraria: è la nascita del sistema umanistico della Letteratura, di quella che poi sarà la tipologia culturale classicistica nell’Europa di Antico regime. In tutto questo la storia di Boccaccio mi sembra esemplare, prima e dopo il Decameron, prima e dopo l’incontro con Petrarca, che per Boccaccio diventa una resa incondizionata che segna i destini della Letteratura, e non solo in Italia, sia chiaro. Ce ne vorrà di tempo, Adone di Marino a parte, perché torni ad avere o reclamare cittadinanza un raccontare che sia orgoglioso di risolversi tutto nell’autonomia formale del suo realizzarsi. Così, per il piacere di farlo e di ascoltarlo».