Melania Mazzucco, la Repubblica 16/06/2013, 16 giugno 2013
I cinema nel cuore delle nostre città chiudono uno dopo l’altro. Un giorno forse dovremo spiegare alle nuove generazioni, abituate a consumare film sullo schermo del loro computer, cos’ha significato per i loro genitori, nonni, bisnonni, passare dalla luce acida dell’atrio delle biglietterie all’oscurità avvolgente della sala, prendere posto sulle poltrone di velluto (o di legno), lasciarsi abbracciare dal buio e guardare insieme agli altri uno schermo gigantesco, su cui per novanta minuti danzano le ombre
I cinema nel cuore delle nostre città chiudono uno dopo l’altro. Un giorno forse dovremo spiegare alle nuove generazioni, abituate a consumare film sullo schermo del loro computer, cos’ha significato per i loro genitori, nonni, bisnonni, passare dalla luce acida dell’atrio delle biglietterie all’oscurità avvolgente della sala, prendere posto sulle poltrone di velluto (o di legno), lasciarsi abbracciare dal buio e guardare insieme agli altri uno schermo gigantesco, su cui per novanta minuti danzano le ombre. Allora forse essi guarderanno Cinema a New York di Edward Hopper come noi gli affreschi pompeiani della Villa dei Misteri, che raffigurano un rito enigmatico e inspiegabile, ancora capace però di trasmetterci la sua seduzione. Ma nel 1939, quando Hopper dipinse questo quadro, il cinema viveva, in tutto il mondo, la sua età dell’oro. Il divismo regalava splendore e bellezza, i biglietti costavano poco. Negli anni Trenta — fra bancarotte, fallimenti e Depressione — i disoccupati trascorrevano ore nelle sale ben riscaldate, i ragazzi vedevano un film al giorno, e tutti entravano per sognare — avventure, amore, delitti. Il buio della sala consentiva ogni evasione, trasgressione, libertà. Hopper era nato nei dintorni di New York, e viveva in un appartamento al n.3 di Washington Square. I lussuosi cinema di Manhattan ti facevano sognare ancor prima di varcare la soglia. Hopper dipingeva con parsimonia, e ha lasciato appena un centinaio di tele. Svariate raffigurano platee e gallerie di cinema o teatri, prima dello spettacolo, col sipario ancora abbassato e file di poltrone vuote. Un tema emblematico, perché duraturo: la prima Figura solitaria in un teatro è del 1902, Due nella platea del 1927, The Sheridan Theatredel 1937, First row orchestradel 1951, Intervallo del 1963. Benché avesse messo a punto il suo stile in un’epoca dominata dalle avanguardie e tesa all’astrattismo, credeva nella rappresentazione della realtà e nella fedeltà oggettiva della visione. Impiegava molto tempo a trovare un soggetto che lo colpisse, e poi a decidere le proporzioni della tela. L’idea del quadro nasceva sempre “dal fatto” — cioè “dal vero”: una casa spettrale lungo la ferrovia, un faro, una strada, una finestra. Ma non prendeva il pennello se non aveva tutto chiaro in mente: l’immagine doveva spogliarsi di ogni dettaglio aneddotico per diventare una faccenda di forme, volumi e soprattutto luce. Nel 1939 Hopper era già il pittore vivente più acclamato d’America. A quarant’anni aveva potuto abbandonare il mestiere di illustratore di pubblicità e disegnatore di poster (anche cinematografici). Nel 1933 il Museum of Modern Art gli aveva dedicato una retrospettiva. La critica lo aveva incoronato come il tanto atteso artista “autoctono”: un realista, come i narratori della sua generazione (Theodore Dreiser, Sherwood Anderson). Con la sua pittura rigorosa e “puritana” aveva saputo cogliere l’essenza dell’America moderna, lo squallore della vita quotidiana, l’alienazione, la solitudine. La tristezza del paesaggio urbano di domenica, i luoghi anonimi come i diner, le camere d’albergo e di motel. Nei suoi quadri dominati dagli spigoli delle architetture e da schemi cromatici essenziali, compaiono pochissimi personaggi, sempre isolati, persi nel loro silenzio. Hopper riconosceva invece il suo debito con la pittura europea — che aveva approfondito a Parigi nel 1907-08 — anche se ammetteva che un artista è poco indicato a riconoscere gli influssi decisivi. Nominava Rembrandt, Goya, Manet e Degas. È Degas quello cui doveva di più. Nei quadri di Degas ambientati in squallide stanze d’albergo, uffici deprimenti, stirerie, caffè e platee buie di teatri, vi sono già molti futuri Hopper, e anche questo. La superficie è divisa in due parti asimmetriche. Non si tratta di un montaggio, due fotogrammi incollati alla moviola: è la simultaneità che conta, il tempo fermo, pietrificato in un unico attimo — insignificante e al tempo stesso gravido di misteriosa attesa. A sinistra, la platea di un cinema (il Palace di Times Square), immersa nell’oscurità grigio-azzurra, come una grotta. Gli stucchi, i rossi e gli ori stridono con la sala semideserta, in cui si distinguono appena due sagome: un uomo e una donna, seduti in file differenti. Il cinema di Hopper non è meno desolato della pompa di benzina di Gas, o del locale dei Nottambuli. Il film proiettato sullo schermo è solo un’ombra confusa. Però guizzante e mobile, quasi fosse l’unica cosa viva. La parete che separa la sala dal corridoio è interrotta. A destra, la luce elettrica illumina un non-luogo di passaggio, dove indugia una donna, la mascherina in divisa. Indifferente al film che si proietta là dietro, è immersa nei suoi pensieri. Sul fondo, la scala che conduce alla galleria. Le tende accostate lasciano che lo sguardo si inoltri, e forzando i margini del quadro esca dai confini della scena rappresentata. La figura della donna malinconica — che sembra il marchio di fabbrica del pittore e compare infatti, in pose analoghe, in molti suoi quadri — è invece quella che costò più travaglio a Hopper. Dai disegni preparatori sappiamo che inizialmente la immaginò mentre accompagnava in sala uno spettatore. Poi com’è adesso, ma più vecchia e meno attraente. Hopper, “carattere di pietra”, era laconico come i suoi quadri. Non commenta mai, non divaga, non sottolinea — né con le parole né con le immagini. Ma ha ripetuto spesso che l’arte è forse anche piacere, ma certamente è fatica. Ogni opera è frutto di un difficile lavoro di sintesi. Semplificazione, quasi denudamento. Così eliminava sempre tutto ciò che poteva affascinare, ornare o svolgere una funzione decorativa. E in Cinema a New York smaschera la rutilante macchina dei sogni hollywoodiana. Non il film sullo schermo, ma una prosaica teoria di gradini svolge la funzione di suggerire l’altrove. Non c’è arte possibile se non nella verità delle cose. Hopper, hanno scritto, era un «maestro la cui poesia era il realismo». Una frase quasi identica aveva scritto Valéry per Degas.