Marco Del Corona, Corriere della Sera 16/06/2013, 16 giugno 2013
Se la poesia può cambiare la vita, al signor Kiyong una poesia — nello specifico, un haiku del giapponese Matsuo Basho che evoca una «giara di polpi» e una «luna d’estate» — di vite ne cambia due
Se la poesia può cambiare la vita, al signor Kiyong una poesia — nello specifico, un haiku del giapponese Matsuo Basho che evoca una «giara di polpi» e una «luna d’estate» — di vite ne cambia due. Anzi, parecchie di più. Kim Kiyong, il mite, sfiancato Kim Kiyong è infatti un importatore di film sudcoreano che una mattina riceve sulla sua posta elettronica un messaggio in codice travestito di versi. Il testo lo richiama alla realtà di una missione che aveva rimosso, addirittura estirpato dalla sua vita. Spia nordcoreana in sonno, convinto per anni di essere stato dimenticato a Sud del 38° parallelo, Kiyong è costretto a muoversi sotto l’incalzare di necessità che diventano un gorgo. Tutto salta di livello e di velocità: ricordi, affetti (Kiyong si è sposato e ha una figlia), paure, pezzi di storia. Gli eventi precipitano e l’azione si chiude in 24 ore, al culmine di un implacabile effetto domino. L’impero delle luci di Kim Young-ha (Metropoli d’Asia, traduzione e postfazione di Andrea De Benedittis, pp. 373, € 16,50) è a tutti gli effetti una storia di spionaggio, e dunque la folle journée di Kiyong e il sistema di esistenze che gli orbitano intorno vanno lasciati alla curiosità del lettore. Nell’intreccio imbastito da uno dei maggiori autori sudcoreani, classe 1968, c’è però molto altro. La Seul che fa da sfondo è colma di vita, misteri e cambi di senso, come sa chi ha apprezzato i racconti di Che cosa ci fa un morto nell’ascensore? (ObarraO, 2008). Il romanzo è percorso da personaggi dal passato ambiguo, da segreti, adulteri senza felicità. E qui sembra disegnarsi un limbo di anime perdute. Un’impazzita ricerca del proprio posto nel mondo, in una Corea che, in fondo, non è né del Nord né del Sud. Come una Corea di Mezzo, dove le identità individuali si sgretolano in preda alla confusione di ruoli: sia quelli rispetto a due governi opposti, sia quelli imposti dalla società del Sud, segnata dal brutale turbocapitalismo confuciano. Il Nord stalinista, quasi il «lato oscuro della forza», irradia a sua volta una forza di perversa attrazione eppure al contempo genera ulteriori duplicità e ambiguità: come quando leggiamo che nella capitale Pyongyang una specie di set sotterraneo riproduce fedelmente strade ed edifici di Seul, popolati da controfigure, allestiti per addestrare le spie da infiltrare al Sud. «Una sorta di purgatorio, un mondo in transizione tra due diverse realtà», scrive Kim Young-ha, che sarà ospite al Festivaletteratura di Mantova in settembre. Nordcoreani che si fingono sudcoreani e quasi lo diventano. L’incombere di un possibile ritorno. Il processo atroce e rapido del distacco. Tutto era stato inconsapevolmente prefigurato nelle parole del padre del protagonista: «Sarebbe meglio fare come le rane, e lo sai perché? Loro sanno nuotare ma, se manca l’acqua, sono in grado di sopravvivere anche sulla terraferma». Da spy story filosofica (e di ottima presa) qual è, L’impero delle luci avverte che appartenere a due mondi significa non appartenere a nessuno dei due o, appunto, a una realtà terza che è altra rispetto a entrambi. Una malsana, perversa sovrapposizione. Se ne accorge Kiyong quando osserva il mondo che sta per perdere, in bilico sul ciglio di un addio: «Se avesse voluto trovare una formula per descrivere il sentimento che stava provando in quel momento, avrebbe proposto qualcosa come "anticipo di nostalgia"». E non occorre essere spie nordcoreane a Seul per sapere di che cosa parla. A ciascuno il suo Nord e il suo Sud, a ciascuno la sua piccola Corea intima, in attesa di un posto nel mondo. leviedellasia.corriere.it @marcodelcorona