Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  giugno 16 Domenica calendario

LA CRISI DEI NEGOZI


CORRIERE DELLA SERA
La crisi rischia di lasciare le città sguarnite di negozi, bar e ristoranti. A lanciare l’allarme è l’Osservatorio di Confesercenti. L’associazione calcola che, se il fenomeno di chiusure delle imprese rilevato nei primi quattro mesi dell’anno dovesse continuare allo stesso ritmo, il primo gennaio 2014 gli esercizi commerciali potrebbero essere decimati. E la «desertificazione» dei centri urbani colpirebbe soprattutto il Sud. In particolare, bar e ristoranti registreranno un saldo negativo di 17.088 imprese, arrivando a perdere il 5 per cento del totale di aziende attualmente in attività. Ai negozi di moda e abbigliamento potrebbe andare anche peggio: a scomparire secondo le stime saranno ben 11.328 negozi. Una contrazione dell’8 per cento rispetto al 2012. Calo più contenuto invece per il settore alimentare, il cui saldo previsto è di 4.701 unità in meno, con una variazione negativa del 3 per cento. La crisi del commercio colpisce tutto il territorio nazionale, con particolare accanimento nel Sud. Per quanto riguarda le attività del settore alimentare, le stime Confesercenti indicano un saldo particolarmente negativo soprattutto in Sicilia, dove le nuove aperture saranno solo 288, un dato inferiore di quasi quattro volte a quello delle chiusure, previste a quota 1.080. Nell’abbigliamento, invece, è la Basilicata a mettere a segno il risultato proporzionalmente peggiore: con 240 chiusure e solo 84 nuove aperture, la regione perderà a fine anno il 10 per cento del totale dei negozi del settore. In Abruzzo, si profila un futuro nero in particolar modo per i ristoranti: con 144 aperture e 534 chiusure, all’inizio dell’anno prossimo la regione avrà perso l’8 per cento del totale delle imprese attive nella ristorazione. Nel settore bar, spicca il dato in controtendenza della Valle d’Aosta che, con 33 nuove aperture e 30 chiusure, potrebbe mettere a segno una variazione minima, ma positiva, dell’1 per cento.

CORSO BUENOS AIRES A MILANO
MILANO — Sale la marea della crisi del commercio. Ora anche Milano — dall’alto del suo primato di città dello shopping — guarda con apprensione l’avvicinarsi dell’onda. Solidale con i punti vendita che non sono in grado di resistere.
La svolta è arrivata nel 2013. Per la prima volta dall’inizio dell’anno nel capoluogo lombardo i negozi con la saracinesca definitivamente abbassata hanno superato le nuove aperture. Saldo negativo. Per la precisione, da gennaio a questa parte si sono «spente» 132 vetrine. Nella città della moda le boutique dell’abbigliamento se la passano peggio di tutti. Chiudono anche i ferramenta, le edicole, le gallerie d’arte e i negozi di calzature.
Inevitabile che, qua e là, cominci a vedersi qualche «buco». Qualche isolato o pezzo di via punteggiato dagli «affittasi» che scoloriscono nell’attesa che qualcuno si faccia vivo. Succede in periferia. Prendiamo la via Lorenteggio, zona Sud Est. I punti vendita «in sonno» son già diversi. Ma succede anche a San Siro, Niguarda, Quarto Oggiaro. La novità è che ora il problema non risparmia le vie del centro. Alcuni punti di corso Buenos Aires. E poi le centralissime via Broletto, via Larga, via Meravigli, via Mazzini. A pochi passi dal Duomo.
Il commercio del centro ha sempre goduto di una condizione privilegiata. I milanesi sono un milione e trecento mila ma un altro paio di milioni di «ospiti» arrivano ogni giorno tra pendolari, turisti, gente che viaggia per lavoro. La gran parte si riversa intorno alla Madonnina. Ora anche questo non basta più. Confcommercio, l’organizzazione del settore più forte in città, si spinge oltre la difesa a oltranza della categoria. E per la prima volta fa autocritica: «Qualche riflessione dobbiamo pur metterla in capo — allarga le braccia Lino Stoppani, uno dei dirigenti dell’associazione —. In passato le attività rendevano e ci siamo forse un poco impigriti. Bisogna cercare strade nuove». Sembra avvicinarsi per i piccoli la rottura dell’ultimo tabù, quello degli orari: «Stare aperti oltre la tabella di marcia canonica per qualcuno può essere un modo per rimpinguare i fatturati. Anche se per gli associati con una gestione familiare è davvero uno sforzo notevole», aggiunge Stoppani.
In alcuni dei quartieri più in difficoltà, come il Lorenteggio, molti stanno decidendo di restare aperti anche ad agosto. Il primo tentativo di chi si trova in difficoltà, però, non riguarda gli orari, ma la richiesta di rivedere al ribasso il contratto d’affitto. «Spesso i proprietari accettano, anche perché sanno che, se l’inquilino se ne va, il negozio resta vuoto. Vengono concessi tagli che vanno dal 15 al 25 per cento», racconta Lionella Maggi, a capo della Fimaa, la federazione degli agenti immobiliari milanesi.
Nell’ultimo anno si era tentata la via della maggiore libertà per chi voleva anticipare gli sconti. Ora su questo si è fatta marcia indietro. Poi c’è la ricetta dei Duc, i distretti metropolitani del commercio. Qualcuno funziona, altri meno. «A questo punto è urgente una politica che favorisca il settore — conclude Stoppani di Confcommercio —. Anche in centro dove negli ultimi anni la chiusura dei cinema, il dimagrimento degli uffici e la riduzione dei residenti hanno dato man forte alla crisi».
Rita Querzé

VIA DEL TRITONE A ROMA
ROMA — «Impossibile fare un censimento dei locali lasciati sfitti dai negozi: come chiude un’attività, ne apre subito un’altra. A volte viene anche il sospetto che dietro la girandola di intestatari ci sia qualcosa di poco chiaro...»: parole di un alto funzionario dell’Agenzia del territorio, il vecchio catasto, che aveva anche provato a mappare le attività commerciali, ma aveva quasi subito gettato la spugna.
La crisi non concede tregua ai commercianti. E a Roma colpisce dalla periferia al cuore della città, ma con dinamiche diverse. In centro, nonostante le chiusure di attività storiche, i locali liberi sono pochissimi e perlopiù in vie secondarie. Nelle strade dello shopping invece sono rare le saracinesche abbassate: come quelle di Spazio Sette, negozio di arredamenti e accessori di tendenza, in via dei Barbieri, a due passi da Largo Argentina, che non ha retto la combinazione del calo dei consumi e dell’aumento delle spese e alla fine ha gettato la spugna. O come la storica Libreria Croce di Corso Vittorio. A via del Tritone, a parte il caso della ristrutturazione senza fine della Galleria che dovrebbe ospitare il nuovo magazzino Rinascente, sono invece solamente tre i locali vuoti, con le serrande tirate giù. Eppure qui hanno chiuso negozi di abbigliamento e bar. Ma hanno riaperto quasi subito. E nei dintorni hanno chiuso ristoranti. Ma poi hanno riaperto con «nuova gestione». Secondo l’antimafia c’è il rischio che dietro queste compravendite di attività nel segno della crisi si nascondano in realtà operazioni di riciclaggio da parte di cosche organizzate (soprattutto della camorra).
Fra le strade intorno al centro colpite dalla crisi ci sono via Tuscolana (dove i piccoli esercenti soffrono la concorrenza dei vicini centri commerciali) e viale Europa all’Eur (anche qui l’apertura di un gigantesco centro commerciale ha contribuito alla chiusura di piccoli e medi negozi di quartiere). Lungo le più periferiche via Tiburtina, via Prenestina e via Casilina, il fenomeno è diverso: chiudono negozi e ristoranti, aprono sale giochi e mini-casinò. Solo lungo queste tre strade ne sono nati almeno 70 in due anni. Al posto di piccoli alimentari, abbigliamento o cartolerie.
Re. Ro.

LA STAMPA
ROSARIA TALARICO
Si potrà anche dire che la crisi non esiste perché i ristoranti sono sempre pieni, ma se il trend evidenziato nei primi quattro mesi di quest’anno dovesse rimanere invariato, al primo gennaio 2014 avranno chiuso oltre novemila ristoranti. E la stessa sorte potrebbe toccare a 11.328 negozi di abbigliamento, accessori e calzature, 7.716 bar e 4.721 esercizi alimentari. La stima è di Confesercenti che sostiene come non ci sia «regione o categoria merceologica che sfugga alla crisi del commercio». Bar, ristoranti e negozi di abbigliamento registreranno un saldo negativo combinato di 17.088 imprese, arrivando a perdere il 5% del totale di aziende registrate a dicembre 2012. Il calo sarà più contenuto per il settore alimentare, il cui saldo previsto è di -4.701 unità, con una variazione negativa del 3% sul 2012. Nel dettaglio, secondo la previsione Confesercenti, il settore dell’abbigliamento registrerà nel 2013 4.593 aperture e 15.921 chiusure. Si tratta di un rapporto aperture/chiusure di 2 a 7, un dato peggiore rispetto a quello di tutte le altre categorie di attività commerciali e anche del totale nazionale, per il quale il rapporto è di una nuova apertura ogni tre chiusure. Per quanto riguarda i bar, i nuovi esercizi saranno 6.714, contro 14.430 che chiuderanno per sempre la serranda; mentre i ristoranti vedranno 15.750 imprese cessare l’attività a fronte di 6.378 aperture. Insomma la crisi si abbatte sul commercio senza risparmiare attività e negozi molto familiari per gli italiani. E non c’è regione che si salva da questa tendenza. Per quanto riguarda le attività del settore alimentare, le stime Confesercenti indicano un saldo particolarmente negativo soprattutto in Sicilia, dove le nuove aperture saranno solo 288, un dato inferiore di quasi quattro volte a quello delle chiusure, previste a quota 1.080. Nell’abbigliamento, invece, è la Basilicata a mettere a segno il risultato proporzionalmente peggiore: con 240 chiusure e solo 84 nuove aperture, la regione perderà a fine anno il 10% del totale dei negozi del settore. In Abruzzo è previsto un record negativo per i ristoranti: con 144 aperture e 534 chiusure, al primo gennaio 2014 la regione avrà perso l’8% del totale delle imprese attive nella ristorazione. Nel settore bar, spicca la stima per la Valle d’Aosta che, con 33 nuove aperture e 30 chiusure, potrebbe mettere a segno una variazione minima (ma positiva) dell’1%. Tra le cause della «desertificazione» non solo la crisi, ma il sopravvento della grande distribuzione e la pressione fiscale sempre più insostenibile. E con uno spauracchio che incombe: l’aumento di un punto percentuale dell’Iva. Per questo - dice Confesercenti - sarebbero necessari interventi urgenti per facilitare la tenuta delle imprese. Dalla riduzione delle tasse a regole di mercato per evitare «distorsioni della concorrenza». E poi, dice ancora la categoria, un migliore accesso al credito e una profonda semplificazione burocratica.

SUI VENDITORI DI TAPPETI
Stanno come il tenente Drogo nel «Deserto dei Tartari». Al loro posto. In attesa estenuante. Anche se il campanellino della porta non suona mai e nessuno telefona, a parte il commercialista. Anche se i tempi belli sono finiti da un pezzo e questo, con tutta evidenza, è solo l’ennesimo sabato di crisi nera. Domanda: cosa hanno in comune un gallerista, un noleggiatore di film e un commerciante di tappeti? Risposta: un destino che pare segnato. Sono tre mestieri in via d’estinzione. Quelli a più forte contrazione in Italia. Più che dimezzati negli ultimi dieci anni. Eppure, fra un mucchio di difficoltà, con bravura, tenacia e fortuna, resistere è possibile.

Alla signora Marisa Di Geronimo, per esempio, oggi vengono in soccorso i denti perfetti di Robert Redford. È di questo che vuole parlare con lei l’architetta appena entrata in negozio. Dello «splendido Redford», di Oriana Fallaci e del nipote emigrato a

New York. «Quando tutti hanno messo il distributore automatico di video spiega la signora Di Geronimo - io ho puntato sul rapporto umano. Quello che mi è sempre piaciuto del mio lavoro è consigliare film, discutere, ricevere commenti. È per questo che vengo ancora qui canticchiando, dopo 28 anni». È un negozio fitto di titoli e suggestioni, in pieno centro storico. Nel corso degli anni i guadagni sono crollati dell’ottanta per cento, ma funziona ancora. Perché arrivano con richieste e problemi che evidentemente il distributore automatico non potrebbe risolvere. «Quello che vuole tutti i film ambientati a Torino. Quello che cerca un regista tedesco sconosciuto. Gli amanti del western, con la camminata western, a loro volta». Qui vanno per la maggiore pellicole che al cinema sopravvivono pochi giorni. «La bicicletta verde». «Il segreto dei suoi occhi». «Le mele di Adamo». «Quattro minuti». «Oltre la collina». «Un film romeno, bellissimo e intenso», dice orgogliosa la signora Di Girolamo. Ma è chiaro che è una lotta contro il tempo. «A noi stanno uccidendo tre cose: la crisi, la rete e i pirati, quelli che scaricano illegalmente». In tutta Italia resistono 2416 negozi di noleggio audio video (-15,2 % nel 2013). Ma in questo piccolo negozio ora entra un’altra cliente. «Purtroppo sono tossica di libri noir e film d’azione di livello vergognoso», dice ridendo. Anche lei troverà soddisfazione. «L’ordine è per autori, ma anche per generi. Metto film famosi accanto a quelli meno conosciuti dello stesso regista». Sono link fisici: guardi, trovi e porti a casa. Ed è un modo per cercare di contrastare il fascino immateriale della grande rete onnipotente.

I quadri, invece, non li puoi scaricare. Ma in tutta Italia sopravvivono solo 2.284 gallerie d’arte (-6,1 % nel 2013). In Piemonte e Liguria erano 320, oggi sono 140. Molti si sono arresi. Altri sono «emigrati» in Svizzera per le note ragioni fiscali. «Una volta chi entrava nella mia galleria lo faceva per il gusto. L’idea era: mi compro qualcosa che mi piace da mettermi in casa, mi farà vivere meglio. Poi, alla lunga, quell’acquisto si dimostrava un buon investimento. Ora il cliente medio è finito. Interessa solo comprare un quadro se è ritenuto un’azione. Quelli che vendono azioni, quindi arte contemporanea, con buoni uffici stampa alle spalle, sopravvivono. Gli altri annaspano o muoiono. La bellezza non basta più». Giampiero Biasutti è un ex imprenditore della ristorazione che ha investito tutto nell’arte. È diventato il presidente dei galleristi del Piemonte. «Il mercato è in crisi drammatica - dice senza giri di parole - i collezionisti sono terrorizzati, in piena psicosi da controlli della Finanza. Solo in Italia è così. Io credo che qualcosa dovrà cambiare». E intanto? «Resisto per devozione. Risparmiando all’osso. Mi sono appena trasferito in locali più piccoli. Ormai devo stare attento anche alla carta dei cataloghi. Capisco bene le ragioni degli ultimi tre colleghi che hanno aperto a Lugano, ma io voglio stare qui. Credo ancora nella bellezza. Nell’idea che si possa scegliere un quadro con gli occhi e non con le orecchie. Devono fare leggi più giuste, tasse più eque. La nuttata passerà...». E se non dovesse passare, dice Taher Sabahi, probabilmente il più importante commerciante di tappeti italiano - uno dei 663 rimasti - amen. Non si rinnegano i grandi amori. «Resteremo qui con le nostre cose belle. A studiarle, a viverci accanto».

Al piano superiore del suo negozio di corso Vittorio Emanuele II, ha aperto un piccolo museo. Mette in mostra i tappeti, racconta i tappeti, scrive di tappeti, anche adesso che i tappeti non si vendono quasi più. «La nostra epoca d’oro è stata il 1980 - racconta - da allora gli affari si sono ridotti del 90 per cento. Una volta una famiglia che guadagnava 2 milioni al mese poteva permettersi un tappeto da 300 mila lire. Adesso questo equilibrio è completamente saltato. La gente con stipendi normali non ce la fa più. Restano i ricchi, ma hanno paura. Avevo sei tessitori, è rimasto solo il maestro Hossein Ebrahimi. Non si fanno più nemmeno le riparazioni». Nato a Teheran, arrivato a Torino nel 1961 per laurearsi in medicina, Taher Sabahi ricorda sorridendo la storia dei primi tre tappeti ricevuti da suo padre: «Li ho venduti ancora prima di uscire dal controllo doganale». Ti mostra libri alti una spanna. I due caveau dove tiene i pezzi pregiati. Poi, sul computer, la bellezza di un tappeto del ’700 decorato con vortici di fiori rossi, battuto il 5 giugno da Sotheby’s per più di 30 milioni di dollari. «È la dimostrazione di quello che ho sempre sostenuto: il tappeto non è solo arredamento, è arte». Anche qui, più nel piccolo, ogni tanto il miracolo si compie: «Suonano alla porta, entra qualcuno. L’ultimo tappeto l’ho venduto 20 giorni fa. Era il figlio di un cliente affezionato. Ma restano in pochissimi...».

Forse è davvero la fine di un mondo. Come sembrano dimostrare anche le attività più in crescita nel 2013: gestore di macchinette di videopoker e slot (+69,1%), portali web (+50,3%), commercio al dettaglio di prodotti macrobiotici e dietetici (+38,2%). Se così fosse, nessuno vi racconterà più che il giallo stupendo di certi tappeti persiani è arricchito con l’urina. Nessuno vi venderà un quadro capace di tenervi compagnia tutta l’estate. Nessuno saprà più consigliarvi il film perfetto per piangere, ridere o fare un viaggio. Oppure no, sopravviveranno. La passione - nostra e loro - li salverà.