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 2013  aprile 19 Venerdì calendario

STENDHAL INNAMORATO

Quando la passione dell’infoiato francese arrivava al calor bianco, affinchè sbollisse l’ardore, lei mandava l’insistente a farsi un bel giro attorno al Duomo. Lui, a bocca asciutta, annotava sul diario: «Mi ha detto all’una di notte: C’è un bel chiaro di luna, vi consiglio d’andare a vedere il Duomo, ma vi. conviene mettervi dalla parte del palazzo Reale». Storia di un assedio amoroso senza esito, quella del signor Henri Beyle di Grenoble. Quando perse la testa aveva trentacinque anni. L’oggetto della sua fatale attrazione di anni ne aveva ventotto.
Lui era arrivato a Milano nel 1800, trovando la città «il luogo ideale dove vivere e morire». Dopo un po’ di andirivieni, nel 1814 vi si era stabilito. A Milano era felice. Il suo mondo erano i caffè dove si abbandonava al piacere di ascoltare uno degli amici italiani, le Charmant Carlin, Carlo Porta, declamare i propri versi in dialetto. Frequentava il Teatro alla Scala. Nel palco di Ludovico di Breme incontrava Vincenzo Monti e altri letterati milanesi. Eccezionalmente di passaggio anche lord Byron. Di più ambiva farsi travolgere dalla passione per le donne italiane.
Nel suo Journal annotava il numero delle donne che «aveva avuto». Forse cercava, animo triste, conferma esistenziale in una impropria collezione di arrotolate tra le lenzuola. A partire da Angela Pietragrua che l’aveva iniziato al talamo, lui diciassettenne, quand’era arrivato a Milano nel 1800, sottotenente di cavalleria al seguito della Grand Armée, al comando dell’allora Console Bonaparte. In quel per lui radioso 1800 Henry Lìeyle aveva perduto la virtù nella città che avrebbe segnato la sua esistenza. Arrivò a volere inciso sulla lapide della propria tomba al cimitero di Montmartre a Parigi, qual unico imperituro merito, essere «Errico Beyle milanese». Tutto gli sembrava possibile. L’amore certo, soprattutto quale gioco erotico.
La sorte come sempre aveva tuttavia predisposto altrimenti.
Per lui una drammatica passione. L’amore che far star male.
Il 4 marzo 1818 quando la vide per la prima volta scoppiò in lui la passione. The greatest event of life, annotò a margine di un libro. Un vero coup de foudre per una donna, a un tempo cordiale e scostante. L’amour fou non gli diede tregua. Un amore che viveva ogni giorno in attesa spasmodica dell’evento. L’insopprimibile desiderio di Henri Beyle era per la nobildonna milanese Métilde Viscontini Dembowski, una delle celebrate figure femminili del risorgimento italiano. Corteggiata e idealizzata da patrioti e scrittori. Da Pellico a Foscolo. Nata nel 1790, Métilde poteva vantare una famiglia di femminili celebrità: la nonna, Elena Milesi, era la decantata sciura Lenin nei versi di Carlo Porta; la bisnonna, Bianca Ferrari, aveva animato un celebre salotto illuminista; la cugina, Bianca Milesi, pittrice, impegnata nei moti risorgimentali.
Abitava nella milanesissima via San Maurilio e, a diciassette anni, contro voglia, aveva sposato Jan Dembowski, ufficiale napoleonico della Legione polacca, da cui ebbe due figli, Cario e Ercole. Pochi anni dopo l’infelice matrimonio, Métilde fuggì in Svizzera. Ritornò a Milano soltanto per difendere il proprio status di madre e di donna. Il marito le riconobbe il diritto sui figli e di vivere «separata di letto e d’appartamento» con la condizione di stabilire il domicilio in casa Dembowski, in piazza Belgioioso. Il polacco voleva salvare le apparenze. Arrestata con l’accusa d’essere un’animatrice dei moti indipendentisti del 1821, Métilde si oppose fieramente all’inquisitore austriaco che voleva svelasse i nomi di altri patrioti. Morì a trentacinque anni.
Quando la incontrò nel 1818, e se ne innamorò perdutamente, Henri Beyle non era ancora Stendhal, l’autore di Le Rouge et le Noir e La Chartreuse de Parme. Aveva scritto qualche libro. Uno su Haydn, Mozart e Metastasio, una grossa opera sull’Histoire de la Peinture, poi Naples et Florence an 1817.’E molti diari, molti appunti, molti tentativi. Una montagna di fogli che lo fa immaginare tale a un forsennato grafomane. Scriveva ovunque. Prendeva appunti fin sui polsini delle camicie.
L’incontro con Métilde Viscontini Dembowski per Beyle fu determinante. Lei però non ci pensava neppure. Dopo vari tentativi d’approccio, come un ganimede da strapazzo, per dichiarare ancora una volta la propria passione, l’impunito fermò per strada Métilde. L’aveva scorta al passaggio nella Corsia del Giardino (oggi via Manzoni). Tentò ancora, dichiarando la propria passione. Ricevette l’ennesimo sonoro rifiuto. Era il 30 settembre 1818, alle 9 e 32 minuti, come Beyle appuntò nel suo Journal. Accasciato, il povero respinto, il giorno seguente, augurandosi di riuscire a mitigare un sentimento ormai ingestibile, vorrebbe addirittura lasciare Milano. Però non desiste. Il 4 ottobre le invia una lettera: «Sono infelice, mi sembra di amarvi di più ogni giorno, e voi non avete più per me quella semplice amicizia che mi mostravate un giorno. Sono contrariato con me stesso per l’insuperabile amore. Sono così infelice che ho bisogno di imporrai prudenza per non bussare ogni giorno alla vostra porta...».
Le chiese di riceverlo un quarto d’ora ogni sera. Lei gli consentì due visite al mese. In salotto, in mezzo ad altri ospiti. È drammatico per un amante respinto accontentarsi dell’amicizia che sarà pena a ogni incontro. Oltre tutto in presenza d’altri. Accecato dalla passione Beyle fece un passo falso. Fatale. Al corrente che Métilde compirà una viaggio a Volterra per andare a trovare i propri figli in collegio di Scolopi, la rincorre. Il 3 giugno, ebbro di passione, si presenterà a lei. Impossibile non essere riconosciuto, celato dietro un occhiale dalle lenti verdi. Irritatissima, Métilde lo caccia. Invano Beyle tenterà di farsi perdonare. Nel suo Journal annotava autocomprensione: «Dev’essere amata ardentemente. Provare il mio amore. Il tutto in stile appassionato. Mi accorgo d’averla offesa. Non posso sopportare quest’idea. La mia lettera deve essere dunque rispettosa. Sottolineare che tutte le passioni rendono arditi...».
Il 4 novembre successivo in un estremo tentativo, onde ottenere il perdono, in quattro ore scrive le poche pagine di Roman, il romanzo per Métilde. Che lei mai lesse. Quelle poche pagine escono adesso in edizione definitiva in italiano grazie alla cura di Giulia Chiesa e Annalisa Bottacin (Stendhal, Roman, 1819. Un romanzo per Métilde, Edizioni La Vita Felice). Roman è il primo tentativo letterario di Stendhal. Aprirà la strada a Le Rouge et le Noir e ancor più a La Chartreuse de Parme.
Il sentimental vagheggiamento trovo intanto il suo esito in De l’amour in cui Stendhal esamina la natura dell’amore che è tanta parte della felicità e dell’infelicità umana. Scritto in gran parte a Milano durante il carnevale del 1820 De l’amour «cristallizza» l’iridescenza dei pensieri ardenti, delicati e dolenti per Métilde. Difficile sapere se lei lo lesse, quando fu pubblicato nel 1822. In preda all’ebbrezza delusa dei sensi Beyle aveva paragonato la ragione della propria passione a Erodiade, la subdola madre di Salomé. Annotava: «La signora M.V. assomiglia in bello all’affascinate Erodiade di Leonardo da Vinci [oggi attribuito a Bernardino Luini]». Certo, Erodiade. E, in metafora, lui decollato come il Battista, con la testa nel piatto. Salvo questo indiretto cenno di Métilde non si conosce l’aspetto. La si può vedere in un piccolo supposto dipinto. Ma chissà se è lei. L’unico certo ritratto che la mostrava al tempo della fiorente bellezza lo volle chiuso nella bara con lei. Andandosene aveva portato via con sé la memoria del proprio volto. Nessun postero ha così potuto, ne può, vedere i tratti di Métilde Viscontini Dembowski. Ad ogni buon conto il profilo idealizzato di Métilde si ritroverà indimenticato, in sovrapposizione con altri amori mancati, nei personaggi femminili della Chartreuse de Parme. L’omaggio postumo di un innamorato deluso, nel gran gioco metaforico della letteratura. Non poco.