Lauretta Colonnelli, Corriere della Sera 17/04/2013, 17 aprile 2013
LE SCULTURE DI LOUISE NEVELSON, DAL NERO ALLA SCOPERTA DELL’ORO - A
nove anni, quando la bibliotecaria della scuola le chiese che cosa avrebbe voluto fare da grande, Louise Nevelson rispose: «Sarò un’artista». E poi aggiunse: «No, voglio fare lo scultore, non voglio che il colore mi aiuti». Non sapeva che il colore sarebbe entrato comunque, di prepotenza, nelle sue opere. Lo stesso colore attraversato dagli alchimisti nel processo di trasmutazione del piombo in oro, dal nero (nigredo) al bianco (albedo), fino all’oro puro e incorruttibile. Ed è con le prime opere in nero che inizia il percorso della mostra «Louise Nevelson», aperta da oggi presso il Museo Fondazione Roma a Palazzo Sciarra (via Marco Minghetti 22), dove resterà fino al 21 luglio. La retrospettiva, che raccoglie oltre settanta sculture dell’artista americana di origine russa ed è curata da Bruno Corà, presenta nelle prime sale i manufatti di piccole dimensioni che documentano l’uso del colore nero fin dai primi anni Quaranta del secolo scorso. «Credo che sia il nero ad avermi scelto, e non il contrario. Quando mi sono innamorata del nero, per me conteneva tutti i colori. Non era una negazione, al contrario, era un’accettazione. Per me è il massimo», raccontò l’artista nel 1958 in un’intervista a Life. Ma poi aggiunse: «Per me, il nero contiene la forma, l’essenza dell’Universo. Ma il bianco esce fuori nello spazio con più libertà».Cominciò a usare il bianco nel 1959. Scoprì che questo colore le permetteva di rendere con maggiore evidenza i rapporti tra luce ed ombra, tanto che cominciò a definirsi «architetto della luce». Risale proprio al 1959 la scultura che si può ammirare nella quinta sala della mostra: un vistoso disco candido intitolato «Dawn’s Host». Accanto a due pezzi provenienti dalla grande installazione «Dawn’s Wedding Feast», dedicata al tema nuziale e presentata nel 1959 presso il Museum of Modern Art di New York. Era composta da grandi lavori che riempivano le pareti e da colonne verticali al centro che simboleggiavano il sole e la luna. Le varie parti furono poi vendute a differenti collezionisti, nonostante Nevelson le avesse concepite come un tutto unico. Queste presenti a Palazzo Sciarra provengono da Houston.Infine le sculture dipinte in oro. L’artista raccontava che il suo interesse per questo elemento risaliva al detto degli emigranti russi che le strade americane fossero lastricate d’oro. Lei precisava: «L’oro è un metallo che riflette il grande sole. Di conseguenza penso sia giunto naturalmente dopo il nero e il bianco. In realtà era per me un ritorno agli elementi naturali». Emmanuele Emanuele, che ha voluto la mostra riportando ancora una volta l’attenzione sulla grande arte statunitense dopo le retrospettive dedicate a Edward Hopper e a Georgia O’Keeffe, collega l’oro di Nevelson anche all’origine sacra dell’arte, al fondo dorato delle icone russe che indica la quarta dimensione, perseguìta da sempre dalla stessa Nevelson. Tutte le sculture sono realizzate assemblando pezzi di legno, relitti di oggetti di uso quotidiano che l’artista raccoglieva frugando nei cassonetti dell’immondizia per le strade di New York, un pò come faceva negli stessi anni Picasso, che creò la celebre «Testa di toro» con un manubrio e una sella di cuoio. Picasso girava per le discariche della Costa Azzurra spingendo una carriola dove ammassava rottami di ogni genere, seguito a distanza dal maggiordomo in limousine. Nevelson invece pranzava a pane e formaggio, cercando di sopravvivere con lezioni di arte, perché soltanto negli anni Sessanta ebbe finalmente il riconoscimento della critica internazionale. Nata nel 1899 a Pereyaslav, ottanta chilometri da Kiev, emigrata nel 1905 con la famiglia negli Stati Uniti, morì a New York nel 1988. La sua vita inquieta e la determinazione fermissima di dedicarsi esclusivamente all’arte sono raccontate da Aldo Iori nel catalogo che accompagna la mostra (edizioni Skira). Volume prezioso, perché rappresenta la prima monografia completa dedicata all’artista, con un viaggio attraverso oltre cinquecento opere che si susseguono in ordine cronologico e con un ricco apparato iconografico commentato da Germano Celant.
Lauretta Colonnelli