Francesco Fiumi, Rolling Stone 19/4/2013, 19 aprile 2013
AL DERBY PIÙ CATTIVO DEL MONDO
Malgrado l’ora del decollo sia quasi fantozzianamente “ai limiti delle possibilità umane”, è decisamente piacevole salire in alta quota e fissare la luce rossa che si staglia sulle Alpi innevate. Sembra che l’alba stia sorgendo proprio sulla nostra prossima destinazione: si va in Serbia, a Belgrado. Non mi stupirei, però, se quel rosso acceso fosse l’antipasto di ciò che ci attende. Saranno anche le 7 del mattino, ma scommetto che qualche torcia è già stata accesa, il derby della capitale serba è già cominciato, questo è certo.
Due squadre fondate nello stesso, lontano 1945 e che da allora si affronteranno per sempre nel “Veciti derbi”, la rivalità eterna. Perché è chiaro, da queste parti non ha senso pensare alla Stella Rossa senza il Partizan. Ma non si tratta solo di puro pallone, questa è anche, soprattutto, la storia dei loro tifosi. Stella contro Partizan vuoi dire Delije contro Grobari: gli Eroi, gente che va a testa alta contro chiunque, eternamente in lotta contro i Becchini, quelli che dicono ti tirino fuori dalla tomba per darti il resto. Il mio contatto, Nenad, mi ha assicurato che all’aeroporto verrà a prenderci una persona. Lo fa in grande stile, Milos, un tipo magrolino sulla quarantina, viso docile e sguardo fermo, che tiene in mano un cartello con i nostri nomi. Presentazioni del caso e l’uomo ci mostra subito con grande orgoglio l’Hummer bianco col quale ci porta in città. Dalle prime battute capisco che è il tipo giusto per rompere il ghiaccio, visto che parla un buon inglese, quindi intendersi è un attimo. Lascio che sia lui a fare le prime domande: che lavoro fai, come ve la passate in Italia, Inter o Milan. Poi arriva il mio turno, decido di entrare subito a gamba tesa e gli chiedo qualcosa sul conto dei Delije, i tifosi, l’arma in più della Stella Rossa. Lui mi risponde con un sorriso ironico: «Vuoi sapere qualcosa su di loro? Ti racconto una storia. Stare qui è come stare nella giungla, ci sono un sacco di animali e loro sono tra quelli. Una volta, mentre ero a casa, vedo dalla finestra un tipo che sta spacciando droga a dei ragazzini. Gli grido di andarsene, insisto un po’ e alla fine lui alza i tacchi. Il giorno dopo, al suo posto, mi trovo sei Delije che mi stanno prendendo la macchina a sprangate. Non ci vedo più, scendo con un’ascia e li affronto. Ne ho feriti due». E intanto si fa il segno di un taglio orizzontale sulla pancia. «E tu?», gli chiedo sbigottito. «Io? Guarda». Ferma la macchina, tira su i pantaloni e mi fa vedere una cicatrice lunga una spanna. «La gamba era fracassata, mi hanno tolto l’ultimo chiodo poco tempo fa». Sticazzi. Benvenuti a Belgrado.
Il racconto del nostro accompagnatore conferma quanto mi aspettavo di sapere in prima battuta sui tifosi di Belgrado. Gente senza scrupoli, persone per cui il calcio può anche essere una passione pura e sincera, che però si intreccia fatalmente con questioni più spinose. Molti Delije e Grobari hanno infatti connessioni rilevanti col mondo della malavita belgradese: armi e droga, come in ogni gangsta movie che si rispetti, della serie non guardare in faccia nessuno pur di avere le mani sulla città. Che problema c’è se poi il campo di battaglia diventa uno stadio, anzi, la cosa per loro è solo più divertente.
Adesso immaginate che qualcuno riesca a riunire le due fazioni e a usarle come un vero e proprio esercito personale, semplicemente dando loro un “ideale” per cui combattere. Prospettiva rassicurante, no? Ecco, un uomo che riuscì a sfruttarne appieno le potenzialità ci fu eccome. Aveva un nome, un cognome e soprattutto un soprannome: Zeijko Raznatovic, meglio noto come Arkan. Sì, proprio lui, quello delle “Tigri”, il comandante del gruppo paramilitare che durante le Guerre d’Indipendenza jugoslave mise a ferro e fuoco tutto ciò che restava del tramontato sogno del Maresciallo Tito. Croazia, Bosnia e Kosovo nelle mani di un criminale da furto d’auto e rapine a mano armata diventato generale, passando per un ruolo da sicario nell’UDBA, gli ex servizi segreti jugoslavi. Divenne il vero e proprio braccio armato di Slobodan Milosevic, ovvero colui che mise Arkan a capo degli ultras della Stella, che così si unirono sotto il nome di Delije. Milosevic, quel presidente che avrebbe voluto creare una “Grande Serbia”, riunendo nello stesso territorio tutti i connazionali sparsi per i Balcani e rispondendo così d’impeto agli impulsi indipendentisti delle altre repubbliche della Federazione, Croazia in testa. Poco importa se questo avrebbe significato cacciare qualcuno dalla propria casa perché reo di non essere serbo. O meglio, in realtà è ciò che toccò ai più fortunati, perché il dramma della pulizia etnica era dietro l’angolo. Il derby di andata si gioca giustappunto il 17 novembre, in tempo per l’anniversario della fine dell’assedio di Vukovar, cittadina di confine popolata da serbi e croati, dove nel 1991 le Tigri fecero strage di civili. Quei tifosi-Tigri che solo qualche mese dopo, a fine marzo, gremirono gli spalti del Marakana proprio durante un derby, come sempre d’altronde. Solo che quella volta vennero esibiti cartelli stradali con la scritta “Vukovar 20” e poi “Vukovar io” e poi, ancora, “Benvenuti a Vukovar”. Una terrificante pulizia etnica celebrata nel tempio del calcio serbo, trofei di guerra mostrati al pubblico, mentre la presenza di Arkan veniva annunciata in tribuna, con lo stadio in tripudio che gridava il suo nome. Storie passate, ma nemmeno troppo lontane, foto e testimonianze lette che mi passano davanti in sequenza a una velocità impressionante, giusto in tempo prima di arrivare in ostello. Milos ci lascia, dice che ci terremo in contatto per vederci di nuovo e fare due chiacchiere con una persona.
Decidiamo di dirigerci subito allo stadio, ma prima di raggiungere la zona calda abbiamo tempo per un caffè e un paio di pastiglie per la tosse. I ristoranti del centro si preparano ad accogliere i turisti e il rumore del traffico incessante fa da sottofondo. Decidiamo di avventurarci subito nella bolgia di macchine e ci affidiamo a un tassista, che resta colpito dalla nostra perfetta conoscenza del serbo, che in effetti conta ben due parole. Tra un “Dobre dan” (buongiorno) e un “Hvala” (grazie), l’uomo ogni tanto impreca contro la sua Zastava Yugo 128 rossa, qualche primavera sulle spalle, in piedi perché non tira vento e probabilmente alimentata a carbone, almeno dando un’occhiata a ciò che esce dal tubo di scappamento. Finisce tutto in una risata, mentre finalmente arriviamo al Marakana.
Sono le 11 del mattino, ma il dispiegamento di forze di polizia è già notevole. La partita comincerà alle 19, e nelle ore che precedono il match la situazione intorno allo stadio rimane tranquillissima, tutto sembra quasi irreale. In effetti, a occhio e croce, sembra ci siano più unità antisommossa che tifosi, manco fossimo al G8... Un’ora prima del match, ritiriamo finalmente il nostro pass per fotografi ed entriamo nella pancia dello stadio. Percorriamo il tunnel da cui entrano anche i giocatori e in un attimo siamo sotto la curva nord, il settore dei Delije. Un muro biancorosso grida compatto: «Grobari! Grobari! Grobari, ci sentite? Dannate fighette, ci sentite?». Gli risponde un bei: «Uccidere, bruciare, non lasciare traccia degli Zingari! India e Pakistan sono le terre degli Zingari, qui di casa c’è solo il Partizan!». Inutile specificare chi siano gli Zingari in questione. Inizia il riscaldamento delle squadre, i giocatori del Partizan non possono fare a meno di passare dal tunnel. Occasione ghiotta per i Delije, che fanno partire un lancio di fumogeni all’indirizzo dei bianconeri, tanto per dargli il benvenuto al Marakana. Ordinaria amministrazione, con i poliziotti che si posizionano formando una sorta di testuggine, in modo da riparare i giocatori mentre entrano in campo. Karia è elettrica, manca qualche minuto alle 19 e le squadre sono in campo per dare inizio al 43esimo derby di Belgrado, ma lo spettacolo per ora è solo sugli spalti. Una, due, quattro, dieci, trenta torce rosse insieme infiammano la curva nord, creando uno spettacolo che eccita e spaventa, dato che da queste parti gli ultras non credono alla raccolta differenziata. Le torce vengono scagliate ripetutamente sulla pista d’atletica intorno al campo, una pioggia di fuoco cade al ritmo dei tamburi che rimbombano nell’aria.
Tutto fa da contorno ai primi minuti del match, che infatti viene sospeso per mancanza di visibilità. Quando la partita riprende, nel frattempo i Grobari hanno deciso di rispondere presente all’appello; saranno almeno 5.000, tutti nel settore sud, esattamente all’opposto dei Delije, come in ogni derby che si rispetti. I tifosi del Partizan, però, sono divisi in due frange: [’intera curva sud è appannaggio degli Alcatraz, mentre i Grobari, per l’appunto, sono “relegati” in uno spicchio adiacente, separato da un settore vuoto e da un cordone di poliziotti. Motivo? Chi l’ha detto che a Belgrado le faide tra tifosi sono solo tra opposte fazioni? I traffici illeciti qui sono una cosa seria, puoi anche avere nel cuore la mia stessa squadra, ma business is business. Il contenzioso nella curva bianconera è aperto ormai da un po’ e se prima i Grobari erano il gruppo di riferimento e gli Alcatraz una sottomarca, oggi le cose si sono decisamente riequilibrate. Meglio tenerli distanti, d’altronde basta ricordarsi di quando l’anno scorso, a Milano, in occasione di Inter-Partizan, era scattato l’allarme rosso: sembrava che la città sarebbe stata teatro del regolamento di conti tra i due gruppi, cosa fortunatamente non avvenuta. Tutti temevano un “Bogdanov 2”, probabilmente. La storia la conosciamo tutti (i disordini capeggiati dall’hooligan serbo durante Italia-Serbia il 12 ottobre 2010, ndr) magari un po’ distorta, visto che qualche giornalista nostrano aveva addirittura stabilito che il docile Ivan avesse fatto parte proprio delle Tigri. Fa effetto pensarlo, non c’è dubbio, ma Bogdanov all’epoca dei fatti di Genova aveva 30 anni, essendo nato nel 1980. Quindi ai tempi delle Tigri e della pulizia etnica, il Terribile era un bambino.
Tornando a noi, il Derby non è solo violenza. Sono letteralmente 90 minuti di fuoco e le due tifoserie non smettono mai di incitare le squadre, creando un frastuono inimmaginabile. A ogni gol lo stadio sembra sul punto di esplodere. La passione morbosa delle due tifoserie sfocia in qualcosa di viscerale, sembra non aspettino altro che venire a contatto, affrontarsi. Ogni gesto, ogni bandiera che sventola, ogni razzo sembra significare, paradossalmente, che non possono fare a meno gli uni degli altri, altrimenti che senso avrebbe tutto questo? Davvero pazzesco, mai visto nulla di simile. Certo un po’ di paura ce la prendiamo, quando vediamo che gli animi si scaldano in curva nord. Spintoni, qualche pugno, noi ci precipitiamo per vedere e rubare uno scatto. Una cosa non proprio opportuna, visto che dalle prime file un Delij’e si erge su una transenna e tira un sasso dritto verso Andrea, il mio compare fotografo. La pietra gli passa a pochi centimetri dalla faccia proprio mentre lui è fermo a scattare...
Ci viene il timore di poter essere riconosciuti fuori dallo stadio dal nostro amico lanciatore; meglio indietreggiare di qualche metro, tanto il derby eterno di emozioni ne ha riservate parecchie. Non solo sugli spalti, visto che i giornali del giorno dopo parlano di incidenti in alcune zone di Belgrado: lanci di pietre, 130 arresti tra le tifoserie, di cui 15 minorenni; 5 poliziotti all’ospedale, a autobus e una macchina della polizia gravemente danneggiati. Non male come bilancio, non mi ero sbagliato: qui non si scherza proprio. Ah, per la cronaca, la partita finisce 3-2, la Stella Rossa vince in rimonta. Provate a immaginare cosa può essere successo al terzo gol...
Il giorno dopo la partita ci ritroviamo in un posto che con il delirio del Marakana ha ben poco a che fare. Lo stadio dell’Obilic avrà al massimo 5.000 posti, sembra abbandonato, le cabine per i telecronisti in tribuna stampa sono vuote, senza prese di corrente e con le porte che cascano solo a guardarle. Ma l’Obilic, la squadra che tra il 1996 e il 1998 visse una vera e propria favola, gioca ancora qui le sue partite. Pensateci: partire dalla Serie B, arrivare in A per la prima volta e lo stesso anno vincere il primo e unico campionato della storia, davanti a due mostri come Stella Rossa e Partizan. E non finisce qui, giocare pure un preliminare di Champions contro il Bayern Monaco... Tutto più facile se il Presidente della squadra è nientemeno che Arkan.
La storia ce la racconta Ljubinko, attuale segretario generale, nel suo ufficio. Dal momento in cui apre la porta, la fotografia di Arkan appesa dietro la scrivania inizia a fissarci intensamente. Siamo in quello che fu l’ufficio della Tigre, seduti al tavolo dietro cui Raznatovic si godeva i successi della squadra, magari pensando anche alle intimidazioni fatte ai giocatori avversar! prima delle partite. Sì, perché giocare bene contro l’Obilic poteva essere molto pericoloso, forse meglio non rischiare. Troppo facile pilotare un campionato con queste condizioni. Ljubinko è gentile, ci mostra con orgoglio le foto della squadra campione del ’97/’98 prima di congedarci con un sorriso e una stretta di mano. Mentre fuori dallo stadio passiamo di fianco al murales che ritrae il volto di Arkan, penso al fatto che la sua squadra oggi gioca nella terza serie provinciale di Belgrado. Il declino iniziò proprio poco dopo che la Tigre fu assassinata, il 15 gennaio 2000. Da brividi, come da brividi è il momento in cui arriviamo proprio davanti alla sua tomba, al Novo Grobije, il cimitero di Belgrado. Una lastra di marmo nero, un busto che lo ritrae in divisa da militare. Sul retro, lo stemma delle Tigri...
Una figura difficile da dimenticare, per quanto tutti quelli con cui ne abbiamo parlato siano sempre stati abbastanza reticenti, o comunque non lo abbiano mai esaltato particolarmente, descrivendolo solo come un tipo molto pericoloso e rispettato. E quanto ci conferma Aleksandar, l’uomo con cui il nostro contatto ci ha organizzato un incontro. Ad accompagnarci c’è di nuovo l’autista dell’Hummer, che ci porta davanti al miglior ristorante di Belgrado. Aleksandar ci attende, entriamo insieme, con un ingresso dei più trionfali: tutti i camerieri gli porgono la mano, molta gente si ferma al nostro tavolo per salutarlo e per scambiare due battute. Capiamo immediatamente che non si tratta di un personaggio qualunque. «Grande partita ieri sera, eh?». Ecco un ottimo modo di rompere il ghiaccio. Mi spiega di aver lavorato molti anni per la Stella Rossa come «uomo ombra», mentre ora gira per il mondo amministrando le sue varie attività. Non da l’impressione di essere un tipo pericoloso, anzi è molto ami chevole, dispostissimo a fare due chiacchiere. Mi dice di aver conosciuto molto bene Arkan, erano amici. Allora gli chiedo se le storie su Tigri, derby e cartelli stradali siano vere. Tutto, ma proprio tutto vero. Si mette anche a ridere: «Hai fatto i compiti a casa, bravo». Racconta, soprattutto, di conservare ricordi indelebili dei bombardamenti NATO sulla città nel 1999, e fa un paragone con ciò che è successo di recente a New York. «Tutta quella gente spaventata per il black out, sconvolta dal non poter usare Facebook sul cellulare per qualche giorno... Noi siamo stati tré mesi senza luce, poco cibo, poca acqua e le bombe che devastavano la città. Andare al lavoro significava rischiare di non tornare a casa. Siamo stati trattati male dall’Europa. Qui non siamo in America, non siamo in Italia. Siamo all’Est, per vivere qui devi tener ben presente che la cosa più importante è il rispetto». Resto in silenzio e annuisco. Mi immaginavo un discorso del genere, in quello stile autoritario di chi ci tiene a ribadire di avere parecchia influenza in città, anche perché non stiamo certo parlando di calcio. La conversazione scorre e io mi guardo bene dall’interromperlo, a maggior ragione quando, alzando il maglione, mi dice: «Lo ripeto, qui ci vuole rispetto. E se uno non mi porta rispetto, allora...», e mi mostra con nonchalance la pistola infilata nei pantaloni.
Dopo la quinta birra, proviamo a insistere per pagare la nostra parte, ma stasera siamo suoi ospiti, non ce n’è, e poi chi ha voglia di contraddirlo? «E tutto, ragazzi, buon viaggio», ci dice mentre sale a bordo della sua Maserati bianca. Lauto sgomma, va via veloce attraverso un branco di fanali rossi come tante, tantissime torce da stadio che sfrecciano nella notte di Belgrado.