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 2013  aprile 19 Venerdì calendario

STUPIDO È MEGLIO?

L’azienda efficiente? Basata sulla creatività, sulla competenza, sullo scambio di idee nel team... O no? E se fosse più simile alla ditta di Fantozzi, dove i dipendenti si mostrano servili verso i megadirettori e non muovono mai critiche? La chiave dell’efficienza di un’organizzazione può infatti essere... la stupidità. O meglio la “stupidità funzionale”, come l’hanno definita gli economisti André Spicer della Cass Business School della City University London e Mats Alvesson dell’Università di Lund, in Svezia, in un articolo sul Joumal of Management Studies. Gli studiosi la descrivono come basata «sull’assenza di riflessione critica. Uno stato di unità, che fa sì che gli impiegati non mettano in discussione decisioni e strutture». Insomma, una schiera di dipendenti che svolgono i compiti assegnati senza obiezioni.
Produttività. Paradossalmente, sottolineano gli autori, a volte questo aiuta ad aumentare la produttività in un’organizzazione: il consenso e l’assenza di domande scomode possono oliare la macchina organizzativa e contribuire ad armonia e produttività. Infatti, promuovere l’esercizio dell’intelligenza è (anche) complesso: troppe teste pensanti possono far perdere tempo. Se invece regna la stupidità «si vive in un clima che riduce i conflitti e da sicurezza» spiegano i ricercatori, motivando i dipendenti ed evitando loro dubbi sul proprio operato.
Tonti? Questo non significa che le persone siano tonte: come diceva Forrest Gump nel film omonimo, “stupido è chi lo stupido fa”, ovvero, chi rinuncia a far funzionare le sue facoltà cognitive. Nella stupidità funzionale non entrano in azione tré aspetti della capacità cognitiva: non c’è riflessività (non ci si fa domande su regole e routine), non si cerca giustificazione (non si chiedono ragioni e spiegazioni), non c’è un reale ragionamento (la razionalità è impiegata per l’obiettivo dato, senza chiedersi altro). E questo, dicono, anche se si ritiene normalmente che le organizzazioni funzionino mobilitando le capacità cognitive.
Cosa fa scattare la stupidità funzionale? Ci possono essere leader che incoraggiano un senso di appartenenza alla propria azienda così forte da fame abbracciare ciecamente regole e obiettivi. «Si possono sacrificare la comunicazione e l’analisi dei problemi per un rapido passaggio all’azione: “Non pensarci, fallo!”» dicono Alvesson e Spicer. E ci possono essere persino espliciti inviti a coltivare la stupidità: «Il direttore di un’agenzia pubblicitaria consigliò ai suoi copywriter di non visitare le fabbriche dei clienti perché ciò avrebbe reso difficile scrivere sciocchezze promozionali sui prodotti». Ma c’è di più, come spiegano Spicer e Alvesson: «Focalizzandosi solo sugli aspetti positivi, i dipendenti mantengono una visione ottimistica e coerente del proprio lavoro».
Effetto boomerang. Questa organizzazione, secondo i due studiosi, è però un’arma a doppio taglio. È funzionale perché ha alcuni vantaggi e fa sì che le persone si concentrino sul compito con entusiasmo. Ma è stupida perché si corrono grossi rischi quando le persone non fanno domande su ciò che loro e l’organizzazione stanno facendo. «La mancanza di volontà di sollevare dubbi sulle strategie di investimento e la fede irrazionale in modelli finanziari ha portato al crollo di molte istituzioni finanziarie e alla più ampia crisi economica del sistema» spiegano i due economisti.
Capita, insomma, che nessuno faccia notare che si sta andando verso il baratro... Margaret Heffernan, imprenditrice e autrice di libri, ha parlato di “cecità intenzionale”: ignorare informazioni da cui è possibile prevedere conseguenze negative (come un crac finanziario).Tra i fattori alla base, l’isolamento dei massimi dirigenti in una “bolla di potere”, circondati da collaboratori tesi a compiacerli. Inoltre, «molti dirigenti non affrontano problemi e preoccupazioni sul lavoro per paura del conflitto» ha affermato Heffernan a una conferenza Ted.
Eppure prima che sia troppo tardi «c’è sempre un momento in cui uno o più membri di un’organizzazione si accorgono di segnali di rischio: non leggerli è segno di miopia» sottolinea Maurizio Catino, sociologo dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca, nel suo Miopia Organizzativa (Il Mulino). Farlo avrebbe impedito molti disastri e non solo finanziari. Catino ha analizzato anche il naufragio della Costa Concordia, che considera un mix di errori e violazioni con alla base il fallimento dell’organizzazione: ha avuto «un periodo d’incubazione (la pratica ripetuta dell’inchino) durante il quale i segnali di pericolo non venivano annotati». Anche la precarietà del lavoro può essere un terreno fertile per la stupidità. «Le aziende con alto turnover, che vogliono ottenere risultati immediati rendendo subito operativi i nuovi collaboratori, possono trame vantaggi; mentre per quelle che intendono valorizzare le risorse umane sul lungo periodo la distribuzione del potere decisionale e delle responsabilità è un investimento migliore» spiega Martina Gianecchini, docente di Gestione delle risorse umane all’Università di Padova e coautrice di Risorse umane. Persone, relazioni e valore (McGraw-Hill).
Incompetenti. Anche perché troppa stupidità fa male: da stress, affaticamento mentale, demotivazione. «È un rischio in organizzazioni con compiti ripetitivi, procedure prefissate e ridotto livello di decisione e autonomia» avverte Piergiorgio Argentero, docente di Psicologia del lavoro all’Università di Pavia, tra gli autori di Psicologia delle risorse umane (Raffaello Cortina).
Oltre a stupidità e miopia, nelle aziende rischia di proliferare anche l’incompetenza. È quello che sostiene il paradossale “principio di incompetenza” o “principio di Peter”, formulato dallo psicologo canadese Laurence J. Peter (in un libro scritto nel 1969 con rumorista Raymond Hull, The Peter Principle): ogni dipendente sale di grado fino al proprio livello di incompetenza. La spiegazione: per le buone capacità mostrate si è promossi a nuovi incarichi, che però richiederanno abilità diverse da quelle usate con successo nei ruoli precedenti. Le promozioni si fermano quando si arriva a un livello in cui non ci si dimostra più capaci. È il caso dell’ottimo operaio che, pur non avendo competenze gestionali, viene promosso caporeparto.
Promossi a caso? All’Università di Catania Alessandro Pluchino, Andrea Rapisarda e Cesare Garofalo hanno verificato il principio di Peter con simulazioni al computer in cui erano riprodotte le dinamiche di un’organizzazione piramidale e il criterio di promozione era premiare i mèmbri più competenti di un dato livello (un criterio meritocratico, ma semplicistico). Il triste risultato: se viene promosso il migliore, ma l’abilità richiesta a un livello superiore non dipende dalle competenze mostrate in quello di provenienza, l’incompetenza è certa. Nel film Una poltrona per due un broker viene sostituito, per una scommessa dei proprie tari della società in cui lavora, da un mendicante. Pura fantasia? Non proprio: lo studio dell’Università di Catania ha concluso che promuovere una persona a caso può rivelarsi una strategia globalmente più efficace che premiare il migliore (se nella simulazione si fa valere l’ipotesi di Peter). Paradossalmente, hanno evidenziato i ricercatori, è più vantaggioso anche far avanzare in modo alternato il migliore e il peggiore. Se questi risultati vi hanno fatto sorridere, sappiate che la ricerca si è aggiudicata l’IgNobel il premio assegnato agli studi più bizzarri nel 2010, per il management. «Nella vita reale la questione è più complessa» ammettono i ricercatori.
Posizioni. Conoscendo i rischi si può prendere qualche contromisura. «Per le promozioni, si possono usare strumenti che vanno al di là delle competenze dimostrate fino a quel momento e individuano le potenzialità per il futuro» spiega Gianecchini. Analizzando capacità e motivazioni. Poi, sottolinea Margaret Heffernan, «tutti devono esprimere le loro posizioni e le aziende consentire il disaccordo perché è essenziale per il progresso». Senza incoraggiare il conformismo, si può per esempio promuovere l’”empowerment”: tutti sono responsabilizzati e partecipano alle decisioni.