Domenico Quirico, La Stampa 30/3/2013, 30 marzo 2013
NEL DESERTO DI TIMBUCTU’ L’ORRORE DELLE FOSSE COMUNI
(l’ultimo articolo di Quirico pubblicato dalla Stampa) -
La notte è afosa, e la calura sale dalla sabbia. Sì, siamo vicini: quando il vento soffia dalla nostra parte, porta questo miasma di morte, l’odore della decomposi- Lzione, greve e dolciastro, nauseabondo. Siamo usciti di notte a cercare i carnai, io e Sidi. Sono non lontano dalla zona dove si svolgeva, negli anni felici, il festival di Timbuctù. Gli assassini qui non hanno pudore, si sentono invulnerabili, gettano i corpi appena fuori la città, senza nemmeno la fatica di seppellirli. Sidi ha occhi di una dolcezza infantile, chiari, e quell’aria incompiuta, slacciata, che hanno tanti visi di giovani neri. Ha studiato inglese, ha lavorato come interprete per il comando americano dell’Africa del Nord. E un po’ nel turismo, quando a Timbuctù. c’erano ancora i turisti. Ora è un custode della memoria, un meticoloso catalogatore di delitti, un samaritano del deserto che ricopre di sabbia i corpi abbandonati degli uccisi, segna, registra tiene il conto. È un uomo che ha la morte nell’anima. Sidi sa: che qui, come nel resto del Nord riconquistato, i soldati stanno eliminando i «peaux-claires», Arabi, Tuareg, Bella, tutti assimilati ai ribelli islamisti, tutti odiati dalla maggioranza nera dei maliani, i bambara: se li sterminiamo non ci saranno più ribellioni…
Non è fuggito durante i mesi del medio evo islamico, ha visto le fustigazioni e le mani mozzate. Poi sono arrivati sulle orme dei liberatori francesi, i soldati maliani, vincitori senza aver sparato un colpo. Hanno ripreso le vecchie abitudini, la caccia alle ragazze adesso che la città è piena di seni, di petti nelle magliette attillate, nelle camiciole vastamente scollate, i passaggi in caffè e negozi per servirsi senza pagare. Si comportano come re negri, aumentando ogni giorno la loro collezione di moto anelli orologi; la sera fumano hashish, si ubriacano e fanno la festa. Vendono al macello il bestiame dei tuareg fuggiti o uccisi e fanno soldi. E poi ripuliscono: dagli arabi, che qui sono i commercianti, i mediatori, i ricchi. Molti, prevedendo la punizione, sono fuggiti in tempo, in Algeria e in Mauritania. Prima di partire hanno venduto la merce ai colleghi neri. Che ora la tengono nei magazzini e la espongono a poco a poco, per creare i prezzi alti.
Così Timbuctù. è alla fame: un litro di benzina in bottiglia costa mille franchi, i sacchi di farina che prima valevano novemila franchi al sacco ora sono a ventimila. Ci sono gli aiuti umanitari, certo. Nei giorni scorsi è stato distribuito un carico di semola: era scaduto da tempo, è corso l’allarme, non mangiate, è pericoloso. Qualcuno ha provato a darlo ai montoni: sono morti. Le bombe che lanciamo su questa gente per «liberarla» sono buone, il cibo no.
Quando comandava al Qaeda «eravamo entrati in Europa»: perché gli islamisti non usavano denaro locale, pagavano tutto regolarmente e in euro: i milioni dei riscatti degli ostaggi europei. Durante il loro dominio luce e acqua non sono mai mancati come ora (la luce arriva a settori, ogni 5 giorni). Regalavano alla città il carburante per i generatori e le pompe: dono di dio, dicevano. C’è già chi rimpiange.
Sidi è stato minacciato di morte, non ha paura. Si è messo fuori gioco, tiene il muso alla guerra al punto di credere che un muro invisibile lo separi da lei. Lui è un superstite. «Non abbiamo ancora avuto la nostra pace, la pace che ci assomiglierà deve venire, ed è su di lei che dovrete giudicarci. Fino a quel momento non dovete far altro che tacere».
Questa calma mi preoccupa. La mancanza di paura non è necessariamente coraggio. Assomiglia alle anestesie di certe malattie nervose. È un uomo che ha perduto la sua morte, come molti maliani. Gli africani non sono mai soli: collettive le loro colpe come le punizioni che subiscono, collettive le loro pene e le gioie. Senza beni, senza speranze, offrono alle catastrofi una superficie più ridotta.
Spiata e investita dal deserto che si getta su di lei prima che abbia il tempo di formare dei sobborghi, Timbuctù si ferma di colpo davanti alla sabbia. Qui i piccoli orti, i campi, sanno di sforzo, hanno l’aspetto doloroso della fatica. Il fiore, l’albero, sono posati come oggetti incollati in una scatola, senza erbe che li raccordino al suolo o li sposino tra di loro. In fondo a un vicolo un ragazzo scappa appena ci vede, come una lucertola svegliata dall’avvicinarsi degli uomini. Fuori è una notte meravigliosa, che qui è la notte di sempre, la notte qualunque. C’è un silenzio vegetale, che non è assenza di rumore: motori che ansimano e scintillano, suoni di tamburi, un matrimonio forse, c’è un gran furore di sposarsi ora che gli islamisti sono partiti. Sembra musica profonda che nasca dal grembo di oscure colline.
Senza Sidi mi smarrirei, le dune tagliate come sono in tutti i sensi da inutili sentieri, fatti dall’uomo, e da incomprensibili piccole rovine. Vediamo una luce, voci lontane, forse un campo di soldati. Si resta a terra, la rena chiara, vista così rasente è nitida come quella di un laboratorio, viene una strana voglia di affondarvi la mano. Aggiriamo le dune ed eccoci arrivati. Sulla testa ha un turbante, ma il corpo è seminudo, il ventre dilatato, i piedi enormi e contorti, sembra un pesce scoppiato con la pancia all’aria, argenteo nel nero d’inchiostro della notte. Dalla terra spuntano teste, braccia legate dietro la schiena, visi senza occhi, pezzi di stoffa che si agitano al vento, l’odore di carogna. Una ventina di corpi, forse più. La morte per massacro, oscena come membra seminude, cosce per aria, neri miscugli di barbe e di stoffa. Occhi di una testa dissepolta, semiaperti, gialli come vecchi bottoni di corno, sembrano seguirmi. È un chiodo che si pianterà in me e non si potrà strappare più.
Sidi ha scoperto nel deserto almeno altri quattro luoghi come questo. Copre i cadaveri di sabbia, prende nota degli abiti, cerca i parenti degli «scomparsi». I vecchi che con i loro carretti trainati da asinelli vanno a far provvista di calcare all’inizio raccontavano di altri carnai, ora tacciono, hanno paura di essere uccisi. Hanno ammazzato anche Mohamed Lamin, il proprietario della scuola coranica, aveva salvato decine di soldati presi in trappola facendoli fuggire su «pinasse» e asinelli; gli era arrivato anche un attestato di riconoscenza, da Bamako. Lo hanno ucciso in pieno giorno; il fratello è scomparso.
Andiamo nel quartiere arabo, Abaradjou, belle case di ricchi ormai vuote, a cercare l’ultima famiglia di arabi. Ci accolgono un vecchio con gli occhi come cicatrici e un bambino bellissimo. Non ci sono affettuosità tra loro, non usa tra la povera gente che deve lavorare molto e ha tanti fastidi. La gente semplice non capisce perché si debba confermare di continuo ciò che si sa già. È lui a parlare: il padre e il fratello sono stati portati via dai militari un mattino: venite con noi, dovete dare qualche spiegazione…
Trasportavano il sale dal deserto, il cortile è ancora pieno di lastre e di scaglie pronte per essere vendute. Il padre era contento che fossero tornati i soldati e aveva donato loro alcune barre di sale. Volevano portare via anche il bambino, quel mattino, lo avevano già gettato nel pick-up. Poi il comandante ha detto: «abla abla», lascialo perdere in bambara. E sono partiti. Due ore dopo è venuto un altro soldato, in motorino, ha preso nella bottega i soldi e tutto quello che aveva valore. Il giorno dopo il ragazzo è andato alla prigione con un sacchetto di cibo. I militari gli hanno mostrato gli islamisti prigionieri: qual è tuo padre? Non c’era. «Allora mi hanno cacciato, ordinando di star chiuso in casa: se non vuoi che arrestiamo anche te…».
Restiamo zitti, col cuore gonfio. Non osiamo dirgli che se hanno rubato, vuol dire che sapevano che era già morto, che non correvano più rischi. «Avevano il turbante, ma uno era a volto scoperto. Saprei riconoscerlo ovunque...». E la voce del bambino prende un suono metallico che sa già di vendetta. Ha acquisito, a dieci anni!, il diritto di vivere a ritroso, insensibile, sordo, con l’occhio fisso su quell’ultimo mattino .
Tutto quello che la gente di Timbuctù ha subito e vede, ora si affonda in loro, come un mucchio di pietrame. Si ridesterà un giorno, a guerra finita, e allora comincerà la resa dei conti per la vita e per la morte. Nello spazio di una notte e di un giorno abbiamo troppo visto e troppo ascoltato. All’alba io e Sidi lasciamo Timbuctù.