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 2013  aprile 20 Sabato calendario

IN BICI DIVENTO UN ANIMALE


Non ditelo alla Cia, ma in Pakistan Jovanotti ha pranzato con quelli di Al Qaeda e loro gli hanno pure pagato il conto. Le "strane" jeep, il gruppo dei sauditi, la notte passata ad Abbottabad, dove fu trovato Bin Laden... La sua anima da agente segreto salta fuori a metà della chiacchierata nella stanza attigua alla sala prove – mattoni a vista, soffitto ad arco e acustica perfetta – creata all’interno della fortezza di Girifalco che domina la sua Cortona con vista sul lago Trasimeno. È qui che con la troupe Lorenzo ha provato canzoni e arrangiamenti del Backup 2013, suo primo tour tutto negli stadi, al via il 7 giugno. La sera prima, a cena in un’eccelsa trattoria del paese aretino, presenti anche la moglie Francesca e la figlia Teresa, Al Qaeda però ancora non era saltata fuori. Si era partiti parlando del Vaticano, dove papa Cherubini ha lavorato per quarant’anni («E conosciuto anche Ratzinger, ma quand’era cardinale»), per arrivare all’esperienza a New York, dove l’artista, la moglie e la figlia si sono trasferiti da meno di un anno. Facendo base nel Village, Jovanotti è riuscito a combinare di tutto (fare concerti, conoscere un sacco di musicisti, assistere ai festival più famosi) tranne che usare l’amata bicicletta con cui periodicamente se ne va all’avventura in giro per il mondo. Manhattan è troppo pericolosa e le prime alture sono lontane. Ora ha una bici nuova con il telaio in carbonio, esibita durante lo shoooting, che non ha ancora assaggiato le colline aretine. «Ma dopo il tour», giura lui, «voglio farci 50 mila chilometri».
Sarà un po’ diverso rispetto alla Patagonia, l’Iran o l’Armenia, i luoghi scelti per i suoi viaggi di almeno un mese. O il Pakistan, dove nel 2000, un anno prima dell’11 settembre, Jovanotti fece il fatidico incontro con Al Qaeda. «Eravamo nel nord del Paese, al confine con l’Afghanistan e non tanto distanti da Abbottabad. Io e il mio amico Augusto eravamo sfiniti, dopo aver pedalato 8 o 9 ore partendo alle 5 del mattino. Perciò ci fermiamo in questa casetta, attratti da un posticcio cartello Restaurant. Bussiamo. Ci aprono. Il proprietario ci fa accomodare in una sala vuota, vuota come quelle dei film di Sergio Leone».
E i "qaedisti" dov’erano?
«Spuntano poco dopo. Da una finestrella notiamo l’arrivo di due jeep. Macchinoni da ricchi occidentali, più che insoliti in un posto simile. Scendono dei tizi. Sauditi, non locali. Uno di loro è il capo, si nota subito. Ha carisma, non a caso il proprietario lo saluta con deferenza, inginocchiandosi e baciandogli la mano. Quindi porta da mangiare prima a noi e poi a loro, che intanto si sono seduti dall’altra parte della sala».
Poi?
«Poi il loro capo si alza, viene da me per chiedermi da dove venivamo, che cosa facevamo lì e se a Roma vivessero molti musulmani. Ho risposto a tutto e lui poi mi ha detto: "Mangiate pure quello che volete, oggi siete miei ospiti"».
Quindi?
«Finito il pranzo, ce ne siamo andati via, mentre i sauditi continuavano a parlare, anzi, a tramare (ride; ndr). Sta di fatto che il 12 settembre 2001 ho subito telefonato ad Augusto e gli ho spiegato che avevo ricollegato all’attentato tutto quanto avevamo visto un anno prima. Lui mi ha dato ragione. Tutti gli altri amici invece non mi credono, ma io sono sicuro che fossero di Al Qaeda...».
Altri personaggi straordinari (e più rassicuranti) incontrati in bici in giro per il mondo?
«Senz’altro quella coppia di fidanzati tedeschi, entrambi bancari in aspettativa, che in bici volevano raggiungere la Terra del Fuoco partendo dall’Alaska. Ma non raggiungerla e basta: farcela avendo in tasca solo 200 dollari e, bagagli a parte, armati solo di un arco e di una canna da pesca per procacciarsi il cibo. Li ho incontrati in Cile, quindi erano quasi arrivati. Erano partiti da 16 mesi, erano felicissimi. E sanissimi, perché durante quei viaggi ti trasformi... in un cavallo».
Perché proprio un cavallo?
«È forte, è indistruttibile. Ma anche puzzolente. Quando tornavo da un lungo giro, pur lavandomi regolarmente, in casa mi dicevano che puzzavo come un cavallo. Cioè, è una cosa che ti viene fuori, una roba animalesca. Mi guardavo allo specchio e dicevo: "Sei un animale, hai la faccia dell’animale". Gli occhi dell’animale sono più aperti».
Qualcuno l’ha mai riconosciuta durante i suoi giri solitari?
«Mai, ma nella Terra del Fuoco sono entrato in un market dove stavano trasmettendo la mia Bella».
E lei, istrionico com’è, è saltato sulla cassa e s’è messo a cantarla?
«No. Anche perché, se l’avessi fatto, al massimo mi avrebbero preso per uno spostato».
Mai incontrati italiani, dunque.
«Zero. In compenso, in Iran, dov’ero arrivato partendo dall’Armenia, i dialoghi tra me e chi mi incontrava spesso erano questi: "Italy? Ah, Totti" o "Italy? Del Piero". Lì sanno tutto del nostro football, nei bazar ci sono un sacco di foto dei nostri giocatori. Sono io che non so nulla di calcio...».
1998 Patagonia. 2000 Pakistan. 2008 Armenia e Iran. Viaggi così sono anche un modo per scappare?
«Li faccio anche per scappare. La bici ti consente di entrare in una relazione molto profonda con te stesso. Il motivo vero di queste esperienze però è che già dal primo giorno in cui pedalo sento le mie funzioni vitali che si vivificano, aumentano. Il mio olfatto diventa super, la mia vista diventa super. Divento un animale. Mi si scatena quella parte di sistema parasimpatico che solitamente teniamo in qualche modo addormentato. Anche perché, soprattutto in certi Paesi, tu hai l’esigenza di non farti male. Qualsiasi cosa ti succeda, te la devi cavare da solo e questo ti porta a moltiplicare la tua attenzione, un elemento che fa proprio bene, specialmente per il mio lavoro».
Questi mesi su due ruote le sono stati d’ispirazione per una canzone, un titolo, un personaggio da inserire nel testo di un brano?
«No, ma mi hanno ispirato un’atmosfera, perché l’ispirazione non è una carta geografica della scrittura. La scrittura attinge a un territorio dell’inconscio, per cui io sono l’ultimo a sapere da dove arriva una canzone. Queste sollecitazioni sensoriali, questo immergermi dentro la solitudine, questa fatica sono anche un modo per compensare una vita di privilegi, di grandi relazioni».
I prossimi viaggi?
«L’anno prossimo mi piacerebbe fare la Nuova Zelanda da nord a sud. Poi ho pensato alla Namibia, per affrontare un pezzo di deserto vero. Un’altra esperienza che sicuramente voglio fare è il tratto della Panamericana da Città del Messico a Panama».
C’è qualche analogia tra le emozioni che regala un viaggio di questo tipo e quelle che si provano sul palco durante i concerti?
«Sono due situazioni completamente diverse, però una alimenta l’altra. Perché io sono un essere molto sociale, ma lo sono in quanto molto legato alla mia solitudine e ai miei silenzi. Che alimentano l’altra parte di me. Nella mia famiglia lo sanno, infatti Francesca, ogni tanto, rivolgendosi a Teresa, per prendermi in giro le dice: "Anche se è in casa, oggi il babbo non c’è". Io mi rendo conto perfettamente di questo».
Il 7 giugno inizia la sua tournée negli stadi italiani. La sua preparazione atletica sarà diversa rispetto a quelle dei tour "indoor" tradizionali?
«Più che altro è diversa l’età. La preparazione non è differente, quello che conta è avere il fiato. A New York faccio spinning tre volte alla settimana, corro e provo un po’ tutte le specialità di palestra. Ma non con le macchine: a corpo libero. Mi manca solo lo zumba e poi le ho provate tutte...».
A Milano riempirà due volte San Siro in 24 ore e lei in concerto non se ne sta seduto a suonare il piano...
«L’importante è che sul palco tu porti il rock ’n’ roll. Io mi alleno perché mi piace, ma potrei anche non fare nulla. L’importante è avere carisma e cantare bene. Ecco, la voce sì che va allenata. Io più canto e meglio è, infatti se mi capita di fare una lunga pausa dopo mezzora la voce va a puttane».
L’ha persa anche vedendo in tv il suo amico Valentino, secondo al GP del Qatar?
«In quel caso ho rischiato l’infarto! Sono letteralmente impazzito, è stato bellissimo. Mi aspettavo che lui fosse ancora Vale, per me può fare ancora un paio d’anni a modo suo. Si capisce che alla Yamaha è tornato a casa, in un ambiente che gli piace. Alla Ducati ha avuto anni difficili, ma quando non scatta il feeling c’è poco da fare. Ha provato un triplo salto carpiato però non gli è riuscito. Comunque non ha mollato, c’ha provato fino in fondo».
Dopo la gara vi siete sentiti?
«Sì, quasi subito. Era felice. Ma anche quando un mesetto fa ci siamo visti a Austin lo era. Aveva finito le prove, io ero arrivato lì per un festival musicale, un evento che ha richiamato 300 mila persone in una città di 800 mila. Siccome in quel fiume di gente non ci conosceva nessuno, abbiamo passato la notte a contarcela e a sentire buona musica».
È vero che una volta il Dottor Rossi l’ha salutata addirittura mentre era in pista durante le prove?
«Sì, al Mugello. Con Francesca stavamo percorrendo in scooter la stradina che costeggia la pista. Valentino arriva alla staccata, alla fine del rettilineo e lei nota un suo movimento insolito, però non ci fa caso più di tanto. Quando finisce le prove, mi viene incontro e fa: "Ti ho salutato, non mi hai risposto". Non so se in quell’istante faceva i 250 o i 300 all’ora, ma vedendoci ha staccato le dita dal manubrio e ci ha omaggiato. Ci sentiamo spesso, ma quello della staccata rimane il nostro "incontro" più insolito».
Il ciclismo di oggi sembra non riuscire a fare a meno di scandali e tribunali. Lei da spettatore che idea se n’è fatto?
«Quando lo guardo in tv, sospendo ogni giudizio. Se vedo una performance la guardo e non mi lascio condizionare. Sono così nella vita, non sono dietrologo o complottista. Poi non sono cieco: le prestazioni folgoranti di certi ciclisti poco dopo beccati per doping avevano stupito (e non poco) anche me».
Da Lance Armstrong, per esempio, si è sentito tradito?
«Sì, perché il suo sembrava un grande progetto. In lui pareva che si incontrassero tutte le anime principali del ciclismo: la determinazione, il grande talento e la scienza positiva al servizio dello sport. Questo suo fisico pazzesco, il preparare una sola gara per tutto l’anno mi faceva pensare che lì ci fosse un grande progetto. Quando poi ti rendi conto che non è così ma è tutta una grande "truffa del rock ’n’ roll", come ci insegna il film sui Sex Pistols, ci resti male».
Tornando a San Siro. L’ultima volta rivelò a SportWeek che nell’intervallo di una partita Berlusconi la invitò a fare pipì insieme a lui. Il concerto del 19 giugno sarà il suo ritorno in questo stadio dopo quell’inconsueto intervallo di quasi 25 anni fa. «Concerti a parte, ci sono stato solo una volta per vedere l’Inter».
Bella partita?
«Non lo so, sono rimasto tutto il tempo a guardare la curva, in particolare un ragazzo che stava a cavalcioni sulla ringhiera, dando le spalle al campo, per guidare i cori e suonare il tamburo. Praticamente ho fissato solo lui. Ragazzi, aveva un’energia mostruosa...».