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 2013  aprile 19 Venerdì calendario

LADRI DI BICICLETTE


ROMA. Nel parcheggio dietro al Parlamento bivaccano le auto blu. In quello vicino alla fontana di Trevi le colonnine si sono piegate sotto il peso dei maxi menu di un ristorante che le usa come appoggio. Alla stazione Termini, dove si narra di un cantiere biblico, è desolatamente vuoto. La circostanza che, in burocratese, chiamino «stallo» la stazione delle bici a noleggio aggiunge al danno la beffa. A quattro anni dal lancio il bike sharing a Roma è più che fermo: non esiste. Kaputt. Da 160 che erano (poche, pochissime, una gag), dopo furti, riacquisti e altri furti, sono rimaste in teoria una dozzina. In pratica zero, confessa un alto dirigente. A Parigi, dov’è partito solo un anno prima, sono passate da settemila a 20 mila. Un certo spread di civiltà. Che è solo uno dei motivi per cui questa storia si merita il trasloco dalla cronaca locale a quella nazionale. E, in prospettiva, un capitolo di un eventuale libro sull’inarrestabile erosione del capitale civico nostrano. Gli ingredienti ci sono tutti: gli sprechi pagati dai contribuenti; la tracotanza della politica, saldata con la sua totale irresponsabilità; l’insipienza dei manager pubblici; la resa dei cittadini rispetto a qualsiasi protesta. Così il monumentale fiasco del servizio di mobilità a pedali della Capitale è diventato la quintessenza dell’Italian Job. Funziona in tutto il mondo, ma anche a Torino e Milano, e da Broscia a Bari, tranne che qui.
Inanellare una così inesorabile serie di errori non è un risultato banale. Anche per sbaglio, una mossa giusta poteva capitare. Invece, no. Tutto ha inizio nel giugno 2008, èra Veltroni. Nell’ultimo scorcio del suo mandato, il sindaco che ha già importato le archistar non vuole che il Tevere sfiguri con la Senna. Tutti parlano del successo di Vélib, le bici parigine un tanto all’ora. Si fa avanti Cemusa, una società spagnola di affissioni che ne ha fatto esperienza in città di medie dimensioni. Mettono sul piatto 19 stalli, per 263 colonnine e 160 bici, più la manutenzione complessiva per sei mesi. L’aperitivo lo offrono loro, sperando che poi al Comune venga appetito. Nel frattempo però il cosmopolita Walter lascia per fondare il Pd e la sperimentazione passa in eredità ad Alemanno. Il nuovo assessore all’Ambiente Fabio De Lillo mette onestamente a verbale la sua estraneità invitando all’inaugurazione il predecessore Dario Esposito. La giunta non sa bene che farne, di quel regalo. Nel dubbio prolunga di sei mesi la sperimentazione spagnola. Perché nel frattempo i romani, nonostante le leggende che la città non si presti alle due ruote (i ciclisti abituali sono decuplicati negli ultimi due anni, arrivando a quota 170 mila), si sono appassionati. Nel 2009 si vendono 3500 card. L’anno dopo 4500, per oltre 50 mila euro di introiti. Considerato il numero ridicolo di mezzi, è quasi un successo. Per le vie congestionate del primo municipio, il sancta sanctorum del centro storico, non c’è di meglio. L’ansa barocca come la City. Anche la città eterna si muove. È incredibile, ma vero. O almeno sembra.
Agli spagnoli questo primo anno di collaudo costa mezzo milione di euro. La casa madre fa gli arredi urbani a New York. Investire va bene, buttare i soldi no. Dice Marco Dallamano, l’amministratore delegato italiano: «L’assessore De Lillo (azzoppato dalla notizia del compleanno della figlia festeggiato nell’Aranciera dell’assessorato) venne estromesso. La partita passa all’Atac, la municipalizzata dei trasporti. Nella prima riunione operativa mi dicono: Tu devi andartene, è inutile che chiedi pubblicità, al più possiamo darti soldi per ripagare le spese». Piccola pausa esplicativa. Il bike sharing ha due possibili canali di finanziamento. Il modello Parigi prevede che un gestore di pubblicità esterna, lì JCDecaux, sostenga i costi del servizio a fronte della concessione di spazi di cartellonistica, il famoso outdoor che resta l’unico segmento di pubblicità non in crisi. Poi ci sono i soldi delle card, ma saranno si e no il 510 per cento del totale. La bici dev’essere quasi gratis per l’utente. A Londra invece il conto di 25 milioni di sterline per 400 stalli e cinque anni lo salda tutto la banca Barclays, che in cambio riceve un enorme beneficio d’immagine. Nessun istituto di credito si fa avanti per mettere le ruote ai romani e si segue l’esempio parigino. In dosi omeopatiche, però, dal momento che la dotazione di velocipedi è il 2,2 per cento dei francesi. Quindi, siamo a giugno 2009, Cemusa cede per 450 mila euro gli impianti ad Atac.
«Era tutto sbagliato, sin dall’inizio» commenta Massimiliano Tonelli, direttore di ArtTribune e inventore di alcuni seguiti blog sui problemi della Capitale. La lista è lunga: «Pochissime stazioni. L’impossibilità di abbonarsi online o ai totem. La non integrazione con il resto dei trasporti pubblici. Bici sbagliate, troppo leggere e troppo poco riconoscibili (quindi facilmente rubabili). Un prezzo complessivamente punitivo anche rispetto al bus, dove non devi pedalare tu. Per non dire di quando misero a pagamento anche la prima mezz’ora, violando il primo comandamento del bike sharing». Un pasticciaccio, dice Tonelli, figlio di ignoranza e di pavidità. Ma su questo secondo punto torneremo tra un po’.
Gennaio 2010: da una costala dell’Atac nasce l’agenzia Roma servizi per la mobilità (Rsm), che si prende in dote il bike sharing. In una seduta consiliare del maggio di quell’anno si fa il punto della situazione e si conclude «che c’è tutto il tempo necessario per preparare una delibera, reperendo prima i fondi necessari per la gestione del servizio». Il tempo è scaduto. I fondi mancano. Luca Avarello, il dirigente di Rsm che l’ha seguita sin dal primo giorno, spalanca le braccia: «Non siamo riusciti a dare la pubblicità». Lo dice con l’ineluttabilità con cui si accettano i terremoti. Però non è la stessa cosa. Quanti soldi servivano? In una seduta della giunta capitolina dell’agosto 2011, li quantificano in 1,7 milioni di euro all’anno, nello scenario ottimistico di passare da quelle che nel frattempo sono diventate 29 a 70 postazioni e da 160 a 850 bici. E in moneta di pubblicità? A fare l’equivalenza ci penserà il bando del novembre 2011: 1500 metri quadrati. Sembrano tanti, non sono niente. Esattamente lo 0,9 per cento del totale del patrimonio cartellonistico romano. Un osso rispetto alle succose bistecche che si spolpano i 415 cartellonari. Ma perché rinunciare?
Finalmente arriviamo alla pavidità. Qui si entra nella giurisdizione del potentissimo assessore al Commercio Davide Bordoni (denunciato penalmente dai comitati civici per non aver rimosso pericolanti cartelloni abusivi piantati da aziende radiate dall’albo). È lui che doveva far digerire ai satolli affissionisti la modestissima dieta in cambio di un servizio ai cittadini che in Europa è standard. Il Venerdì gli ha chiesto in più occasioni un incontro, qualsiasi luogo e ora, ma era sempre in viaggio per impegni istituzionali in quartieri apparentemente remoti. Chi ha acconsentito a parlare è invece il suo collega all’Ambiente Marco Visconti (ipotesi di abuso d’ufficio nella parentopoli Atac), che in teoria le bici pubbliche le voleva, era andato a Londra a ispirarsi e, sull’ultimo numero della rivista Protecta che abbonda nella sala d’attesa dell’assessorato, ha scritto un articolo sulla «mobilità sostenibile» che si chiude proprio con le parole bike sharing. Dice molte cose Visconti, una decisiva: «L’assessore al Commercio avrebbe dovuto in tempi brevi fornire l’esatta localizzazione dei cartelloni da dare in contropartita alle ditte aggiudicatarie del servizio. Perché non l’ha fatto? Non chiedetelo a me». E purtroppo neppure a Bordoni, nonostante le cinque email dello staffe le reiterate suppliche telefoniche.
Sarà l’affiliazione all’Ordine di Sant’Agostino, la spiritualità eremitica. Un silenzio assordante.
Non ci resta che tornare all’Eur, dall’ingegner Avarello. È un uomo («sono cattolico»), cui viene più naturale notare i pregi piuttosto che i difetti. Scusa Visconti, «ministro senza portafogli». Scusa il bando del 2011, poi bocciato dal Tar perché mancava appunto la localizzazione degli impianti oggetto della contropartita (una cosa è un cartellone a Trinità dei Monti, altra uno a Tor Tre Teste): «Anche a Milano mancava, e non l’hanno annullato». Rivendica l’attivismo del suo ufficio: «Abbiamo simulato 375 luoghi dove mettere i cartelli e anche proposto di alzare il costo del bollino blu per l’auto e devolvere la differenza per pagare le bici». Confessa una colpa altrui: «Il sistema di bloccaggio era sbagliato. Dappertutto il perno che deve assicurare la bici agli stalli è verticale, quindi basta appoggiarlo e la forza di gravita fa scattare la chiusura. Da noi era orizzontale, e molti in buona fede credevano di avere chiuso e invece...». Festa grande per i ladri di ogni ordine e grado. Seicento biciclette ricomprate, per essere rubate ancora. Un vaudeville costato 1,2 milioni di euro agli incolpevoli cives romani. In cambio di niente. Non ci sono più le bici (l’ingegnere dice zero, con qualche carcassa senza catena o sella), sopravvivono sei addetti. Vacanze romane riscritto da Ibsen. Se un «peccato originale» deve trovarlo, Avarello lo colloca all’inizio: «L’amministrazione Veltroni, accettando il periodo di prova, ha preso una scorciatoia». Intende dire che era chiaro che Cemusa non avrebbe potuto vincere, perché serviva una gara pubblica. Ed era chiaro che, facendo la prova gratis, l’avrebbe fatta al risparmio. È anche chiaro che il dirigente di una municipalizzata, se proprio deve sparare, non mira la sua giunta. E Bordoni? Silenzio.
Chi non ha problemi a parlarne è il consigliere comunale del Pd Athos De Luca. L’estate scorsa l’aveva attaccato in pubblico: «Sul bike sharing è lui che blocca tutto». In quell’occasione l’assessore aveva rotto il suo tradizionale riserbo, minacciando querele. Mai partite neppure quando De Luca, a dicembre, ha denunciato preventivamente una delibera killer che avrebbe consegnato per 15-20 anni concessioni pubblicitarie agli eventuali assegnatari del bike sharing, in spregio a qualsiasi piano regolatore del settore. Proprio quel Prip da approvare che oggi, nell’ecumenica ricostruzione di Avarello, bloccherebbe tutto. E ti pareva: è colpa della logge. Non dell’ignavia contro la lobby di cartellone selvaggio. Dei perni ridicoli. Del volemose bene, quindi rileviamo un sistema con difetto genetico, che tanto sono soldi pubblici. Del non fare mai i nomi dei colpevoli, solo di chi si è molto impegnato. Del non dimettersi mai, non importa l’entità del fallimento o dello scandalo. «Il bike sharing è una sconfitta per la città» ammette un istituzionale Visconti. Non per lui, che «la faccia ce l’ho messa». Tra le 493 città in cui funziona, da un recente e approssimativo censimento, c’è anche Baku, Azerbaijan. Sia detto con il dovuto rispetto.
Riccardo Staglianò