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 2013  aprile 21 Domenica calendario

QUEL CHE MI HA SCRITTO IL BIS PRESIDENTE


Tanti anni fa un principe del giornalismo italiano, Vittorio Gorresio, mi disse:«Caro Pansa, vedo che hai cominciato a occuparti della politica italiana. È quello che sto facendo io da sempre. Nel primo dopoguerra, dominato da uno scontro continuo ed eterno tra due colossi, la Dc e il Pci, pensavo che mi sarei annoiato. Ma non è stato così. Al di là delle apparenze, emerge sempre qualche sorpresa, un fatto che non ti aspetti, un personaggio che compie un passo insolito. Succederà anche a te. Tieni duro e tira avanti. Prima e poi la tua tenacia sarà premiata».
Eravamo nel 1971, Gorresio aveva 61 anni e guidava la redazione romana della Stampa. Era un signore piccoletto, smilzo, i capelli tagliati all’umberta, capace di battute fulminanti accentuate da una erre alla francese. Veniva da unafamiglia di militari cuneesi, ma era l’opposto del tipo autoritario. E aveva in simpatia i giovani colleghi impegnati a percorrere una strada professionale che lui ben conosceva.
Il direttore della Stampa, Alberto Ronchey, gli aveva affidato un compito non da poco e senza precedenti in Italia. Nel dicembre del 1971 sarebbe scaduto il settennato di Giuseppe Saragat e Ronchey chiese a Gorresio di cominciare con molto anticipo il racconto di come sarebbe stato eletto il successore. Voleva da lui una sessantina di articoli destinati a confluire in un libro che da noi nessuno aveva mai scritto.
Il modello era quello di un celebre saggio dell’americano Theodore White, «The making of the President 1960», come si fa un presidente, pubblicato undici anni prima. Gorresio scrisse gli articoli chiesti da Ronchey. Neppure in seguito nessuna campagna presidenziale venne raccontata come aveva saputo fare lui. L’inchiesta si concluse con l’elezione di Giovanni Leone, una vicenda densa di sorprese e di big sconfitti, primo fra tutti Amintore Fanfani. Per inciso ricorderò che Leone arrivò al Quirinale dopo ben ventitré scrutini.
Prima che s’iniziasse la breve maratona di oggi, il sabato 23 marzo scrissi per Libero il mio Bestiario settimanale. E decisi di fare una scelta per me insolita: rivolgermi direttamente a Giorgio Napolitano e invitarlo a farsi rieleggere al Quirinale.
Il giorno precedente lo avevo visto e ascoltato in tivù mentre leggeva la dichiarazione che affidava a Pier Luigi Bersani il compito di accertarsi se era in grado di formare il governo. Ed ero rimasto colpito dalla sua saggezza politica e dalla sua energia fisica e morale. Da cittadino mi ero posto la domanda che tanti altri italiani si stavano di certo facendo: perché mai dovevamo privarci di un capo dello Stato come lui?
Mancava meno di un mese alla prima seduta del Parlamento, prevista per il 15 aprile. E non era ancora stato individuato un candidato capace di raccogliere un consenso trasversale e molto ampio. Anzi tra i due blocchi, centrosinistra e centrodestra, si era già aperto un dibattito ringhioso sul solito problema: a quale area politica spettasse indicare il nuovo presidente.
Da cittadino osservavo con molto timore lo stato d’animo del nostro paese. E nel Bestiario descrissi quel che vedevo. Un’Italia che non sapeva più vivere in pace con se stessa. Troppi italiani si guardavano in cagnesco. Si disprezzavano l’un l’altro. Si odiavano. Avevamo smarrito la strada della concordia nazionale. E stavamo imboccando il sentiero avvelenato che poteva condurci alla rovina.
Per tutto questo e altro ancora, scrissi a Napolitano che l’Italia aveva l’assoluta necessità di un Santo Protettore. Gli dissi: «Signor presidente, lei è un laico, come me del resto. E forse sorriderà nel vedermi invocare questa figura. Però non sto pensando a qualche entità superiore. Penso a un italiano che in giugno compirà 88 anni, ma è ancora in grado di fare molto per il nostro paese. Penso a lei, Signor presidente ».
Aggiunsi: «La Costituzione non vieta la rielezione del capo dello Stato. Dunque, perché mai dobbiamo andare in cerca di un nuovo presidente della Repubblica? Accetti l’ipotesi di restare al Quirinale ancora per qualche anno. Poi sarà lei a decidere il momento di ritornare a casa ».
Il Bestiario uscì su Libero la domenica 24 marzo. Il titolo diceva con semplicità: «Napolitano resti sul colle più alto». Il lunedì mattina mi cercò al telefono la segreteria del Quirinale e mi disse: «Ho una lettera del presidente per lei. Dove posso fargliela avere?». Quel giorno mi trovavo a Roma e la lettera mi venne recapitata nel pomeriggio. In alto a destra, una dicitura specificava che era riservata a personale.
Anche per questo motivo formale non posso rivelarne le parti che riguardavano i nostri vecchi incontri professionali. Risalivano all’epoca che mi vedeva ricercare l’opinione di un dirigente comunista di prima fila, impegnato a sollecitare l’emergere di posizioni socialdemocratiche nel Pci. Allo stesso modo non ho il diritto di riferire che cosa diceva il presidente a proposito delle ragioni personali della scelta di non ricandidarsi.
Ma la parte finale della lettera era tutta politica. Per questo motivo la citerò inmododisteso, sperando di non commettere un gesto indiscreto. Sono parole che considero importanti. E mi sembra giusto che non rimangano soltanto nell’archivio privato di un giornalista.
Napolitano mi scrisse: «Onestamente i miei sforzi sono giunti al limite. Farò ancora per il paese quel che potrò, una volta compiuti gli 88 anni e trasferitomi in Senato. Ma non possiamo proclamare un’altra anomalia italiana. E cioè l’impossibilità, per mancanza di ulteriori “riserve della Repubblica” o di persone idonee al compito, di garantire il fisiologico succedersi di un nuovo Presidente a chi abbia concluso il suo per altro lungo mandato».
Questo pensava Giorgio Napolitano ventisei giorni fa. Ma nelle settimane successive è accaduto quel che sappiamo. Alla pesante crisi economica e sociale si è aggiunta un crisi sempre più forte del sistema istituzionale e politico. Abbiamo bisogno di un capo dello Stato che il Parlamento non riesce a eleggere. Abbiamo bisogno di un governo condiviso che si formi subito e inizi a operare senza incertezze né indugi.
Sono questi i gravi motivi che forse hanno persuaso Napolitano a non respingere l’invito che gli hanno rivolto quasi tutti i partiti presenti in Parlamento. Che cosa doveva fare il capo dello Stato? Rifiutarsi di ascoltare un grido di aiuto? Per nostra fortuna ha risposto sì. Da cittadino mi sento più tranquillo o, se vogliamo, meno impaurito.
Auguro a Napolitano buona fortuna. Nella speranza che non prevalgano gli spiriti malvagi o sciocchi che urlano contro la sua scelta. Costoro non si rendono conto che il vecchio presidente ha accettato di ritornare in campo anche per difendere la loro dignità di cittadini e di italiani.