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 2013  aprile 19 Venerdì calendario

MPS, STRETTA SULL’INDAGINE ANTONVENETA


[più pezzi]

Prosegue l’attività d’indagine e di reperimento di documentazione sul Monte dei Paschi di Siena. Ieri mattina il nucleo Valutario della Gdf si è presentato nella sede di Milano di Jp Morgan chiedendo ulteriore materiale sull’operazione di finanziamento di Mps del 2007, finalizzato all’acquisto di Antonveneta.
Si parla ufficialmente di un approfondimento sulla struttura organizzativa della banca inglese. Probabilmente gli uomini della Gdf hanno voluto recuperare documenti relativi ai rapporti di lunga data con Mps. Rapporti che hanno portato alla costruzione del prodotto finanziario Fresh, del valore di un miliardo, il cui scopo era contribuire all’aumento di capitale di Mps per l’acquisto di Antonveneta nel 2008 per 9,3 miliardi, finito nel mirino della procura di Siena per i presunti reati di ostacolo alla vigilanza, falso in prospetto e manipolazione del mercato, di cui sono accusati gli ex vertici di Mps.
Nessuna perquisizione negli uffici di Jp Morgan, dunque. Ma l’inchiesta prosegue, evidentemente, e si sta focalizzando sempre di più sul ruolo delle banche straniere, sia per quanto riguarda il filone di inchiesta su Antonveneta che sui derivati.
Nel primo caso, al centro della vicenda ci sono Jp Morgan e Bank of New York. A collocare il Fresh (obbligazioni convertibili in azioni) è stato Jp Morgan, che poi ha ceduto i titoli a Bony, la quale a sua volta ha chiesto una «indemnity side letter» a tutela di alcuni sottoscrittori che volevano avere certezza di rendimenti nonostante il prodotto fosse ancorato all’esistenza di dividendi. Il tutto all’insaputa delle autorità di vigilanza. Poi Jp Morgan ha mantenuto la nuda proprietà del titolo, vendendo l’usufrutto a Mps per una cifra di 86 milioni all’anno.
Tutta questa complessa operazione finanziaria è nel mirino degli inquirenti e di Bankitalia, ed è possibile che nei prossimi mesi si arrivi ad una svolta nelle indagini, o quanto meno ad un primo importante punto fermo, entro agosto. Prossimo passo sarà l’interrogatorio a Madrid di Emilio Botin, presidente del Santander, da cui Mps ha acquistato Antonveneta. I pm sono fermamente convinti che serva un confronto con il numero uno della banca spagnola.
Per quanto riguarda i derivati invece, solo tre giorni fa banca Nomura è stata perquisita, su disposizione urgente dei pm Nastasi, Natalini e Grosso, per una cifra record di 1,8 miliardi, relativamente al prodotto strutturato Alexandria, sottoscritto dalla banca senese e dalla banca giapponese, che secondo la procura di Siena (oltre che di Bankitalia e dei nuovi vertici di Mps) è causa di ingenti perdite in bilancio (730 milioni). Su questo prodotto finanziario è spuntata pure un’inedita e gravissima, ipotesi di reato: l’usura, di cui è accusato l’ex ad del mercato europeo di Nomura Sadeq Sayeed, il manager (di Dresdner prima e di Nomura poi) Raffaele Ricci, l’ex presidente di Mps Giuseppe Mussari, l’ex dg Antonio Vigni e l’ex responsabile dell’area finanziaria Gian Luca Baldassarri.
Anche sui derivati si procede ora con nuovi approfondimenti: si dovranno studiare i complessi meccanismi finanziari del secondo derivato finito nel mirino della procura, Santorini, sottoscritto con Deutsche Bank.

Sara Monaci


QUEI 16 MILIARDI AD ABN E SANTANDER

Sullo sfondo, l’obiettivo dell’inchiesta Mps resta uno solo: sollevare il coperchio sull’acquisizione di Antonveneta. E chiarire così i contorni di un’operazione discussa e per certi aspetti ancora misteriosa. Ma nel decreto di sequestro di martedì della procura di Siena, contro gli ex vertici del Monte e l’ex ad di Nomura Sayed, spuntano decine di indizi raccolti dal nucleo speciale di polizia valutaria guidato dal generale Giuseppe Bottillo. I riscontri a verbale di alcuni testimoni qualificati sentiti dagli inquirenti raccontano una situazione paradossale:
se le tesi accusatorie fossero fondate - mentre i legali della difesa rivendicano l’estraneità a ogni accusa - l’ex presidente Giuseppe Mussari e l’ex dg Antonio Vigni o erano «menti raffinatissime», tanto per citare Giovanni Falcone, o non erano consapevoli del disastro in cui si erano cacciati. E sarebbe ancora peggio, per certi versi.
Uno dei temi scottanti è l’esposizione di Antonveneta verso Abn Ambro. Mps dopo l’acquisizione se la deve accollare e non è uno scherzo: ammonta a dieci miliardi di euro. Un macigno sulla banca di Rocca Salimbeni che peserà eccome sui suoi conti. Emblematico il racconto di Daniele Bigi, responsabile della contabilità. «Bigi ricostruiva i complessi passaggi finanziari che avevano determinato il trasferimento del pacchetto azionario Antonveneta da Abn Amro - per conto di Banco Santander - a Mps» si legge nel decreto. Il corrispetto di acquisizione è pari a 10,124 miliardi. Poi vanno sommati 43,4 milioni di interessi maturati sulle linee di finanziamento concesse da Abn Amro ad Antonveneto. Vanno però sottratti 900 milioni di rimborso/deposito Antonveneta presso Abn Amro, a seguito della cessione di Interbanca. Il saldo finale è di 9,2 miliardi. Ma ci sono anche altri 2,5 miliardi a favore di Banco Santander. E secondo gli accertamenti dei uomini del Nucleo valutario, specialisti in reati economico-finanziari, «dalla documentazione è emerso che Santander ha concesso un finanziamento di 5 miliardi a Mps per consentire la chiusura degli affidamenti bancari - come si legge nel decreto - per complessivi 7,5 miliardi di euro, che Abn Amro aveva concesso alla sua partecipata banca Antonveneta». Un ciclone di soldi. La somma finale è presto fatta (9+2+5 miliardi): «L’acquisizione di Banca Antonveneta è costata, pertanto, a Mps, in termini di liquidità effettiva, euro 16.767.652.631,96», oltre 16 miliardi. E i cinque miliardi sono stati restituiti a Santander nel 2009 quasi di botto, nel giro di un mese, in sole tre rate. Il 31 marzo, un miliardo e mezzo di capitale e 67,3 milioni di interessi. Solo un mese dopo, il 30 aprile, un altro miliardo e 49,3 milioni di interessi, sempre alla banca guidata da Botin. Nella stessa data Mps gira ad Abbey National treasury Services Plc due miliardi e mezzo di capitale e 123 milioni di interessi. Movimenti tutti resocontati da copia dei bonifici acquisiti dagli investigatori. E il pagamento ad Abbey National Tresaury è oggetto di una rogatoria della procura di Siena. Diventa così chiaro che l’accordo considerato fraudolento, secondo la procura, tra gli ex vertici del Monte e Nomura, è il secondo filone investigativo: ma il primo filone, anzi quello primario, riguarda Antonveneta. Pierluigi Montani, ex ad di Antonveneta, sentito dagli inquirenti nel marzo scorso, racconta che incontrò Mussari e Vigni qualche giorno dopo l’acquisizione notando «smarrimento» e che «non avevano contezza» del costo reale. «Ma questi hanno capito veramente quanto devono pagare?» verbalizza Montani. Alla luce di quanto sta emergendo è un interrogativo che rischia di apparire retorico se non ingenuo.

Marco Ludovico


QUANDO ANCHE IL PRESIDENTE FINISCE SOTTO INCHIESTA–

Too big to jail. La frase, resa popolare da un documentario della televisione pubblica americana, ritrae un fenomeno particolare e sempre attuale negli anni post-crisi finanziaria e mentre continuano a moltiplicarsi gli scandali bancari. E lo fa con un gioco di parole: se gli istituti sono stati spesso considerati troppo grandi fallire, too big to fail, i loro vertici, i chairman come gli amministratori delegati, sono stati giudicati troppo grandi per il carcere. Anzi, spesso anche solo per essere perseguiti dalle autorità giudiziarie.
La vicenda italiana del Monte dei Paschi ha fatto ora scattare un’inchiesta giudiziaria su alti dirigenti della banca giapponese Nomura, tra cui l’ex presidente europeo Sadeq Sayeed per truffa e ostruzione delle autorità di regolamentazione. Ma simili indagini - e ancora più condanne - restano rare a cominciare dagli Stati Uniti, epicentro del colosso del 2008, anche se non sono casi isolati. La carrellata dei personaggi illustri presi ufficialmente di mira dai magistrati è breve quando paragonata alla lista dei disastri e delle controversie che li hanno visti protagonisti. Ci sono alcuni grandi banchieri americani come europei: ecco anzitutto lo statunitense Angelo Mozilo, chairman di Countrywide Financial, leader dei mutui subprime poi rilevato da Bank of America. Le indagini penali, parallele a multe record a suo carico, sono decollate solo per finire in un nulla di fatto. Dall’altra parte dell’Atlatico si fa notare Joseph Ackermann, ex chairman della tedesca Deutsche Bank: un tribunale in Germania l’aveva assolto già nel 2004 dal sospetto di bonus impropri nel takeover di Vodafone. Nel 2011 è stato indagato per falsa testimonianza nel caso contro il suo predecessore Rolf Breuer, accusato d’aver contribuito al crack del Kirch Group. Più vicino all’Italia, nel 2010 il chairman della banca del Vaticano finì sotto indagine per riciclaggio.
Gli scandali, tuttavia, sono in gran parte rimasti circoscritti a sanzioni amministrative e pressioni politiche. A volte queste sono costate il posto ai top executive, ma poco più. Alla britannica Barclays il presidente Marcus Agius si è dimesso nel 2012, con il chief executive Bob Diamond, per la maniplazione del Libor. Un’inchiesta che rimane aperta contro una dozzina di banche globali e che però nei mesi scorsi ha fatto scattare solo multe e accuse contro trader. Gli scandali alle origini della crisi del 2008 non hanno avuto destino molto diverso: Tom McKillop, chairman dell’altro gigante britannico Rbs, salvato dal governo, assieme all’aggressivo Ceo Fred Goodwin si è ritirato e scusato in Parlamento per incompetenza bancaria. Niente incriminazioni anche in America per i re di Wall Street James Cayne e Dick Fuld, ex presidenti delle fallite Bear Stearns e Lehman Brothers. Fuld è stato solo «condannato» dal pugno di un ex dipendente. Il ministro della Giustizia americano Eric Holder è stato chiamato a rendere conto delle scarse azioni penali contro le banche e i top executive. Durante il tracollo delle casse di risparmio negli anni Ottanta erano pur scattati 1.100 casi penali e 800 condanne di banchieri, anche di alto rango. La sua riposta non ha avuto nulla che fare con le difficoltà, che pure esistono, di portare avanti complessi casi giudiziari: «Sono preoccupato - ha detto - che perseguire istituti di simili dimensioni avrebbe effetti negativi sull’economia». Insomma, too big to jail.


Marco Valsania