Piero Bianucci, La Stampa, 22/4/2013, 22 aprile 2013
SE LA DEMOCRAZIA DA’ I NUMERI
Che il voto possa portare a paradossi l’avevamo capito il 25 febbraio dalle parole di Bersani: «Siamo i primi, ma non abbiamo vinto». Come sarebbe a dire? La democrazia non è il governo della maggioranza? E la minoranza, stando all’opposizione, non ha un ruolo altrettanto nobile ed essenziale del governare?
No, sarebbe troppo semplice e troppo bello. La misura del consenso e la sua traduzione in un governo portano con sé problemi complessi. Succede persino in Svizzera, la più antica delle democrazie, dove non c’è una legge elettorale assurda come quella che abbiamo in Italia, una legge che, regalando un lauto premio di maggioranza alla Camera in nome della governabilità, ma favorendo un Senato senza maggioranza, pone le premesse per la paralisi. Non a caso è uscita dalla mente del leghista Calderoli, che lo Stato vuole scardinare. Se poi i partiti (o le coalizioni) non sono due ma tre o addirittura quattro, la matassa si aggroviglia, entrano in gioco le leggi della logica, i principi ineludibili del pensiero razionale (che però spesso sfuggono ai politici, salvo poi sbatterci contro quando è troppo tardi).
Per diventare politica concreta in un dato paese con un dato numero di partiti, la democrazia ha bisogno di matematica e deve conoscere la logica. Per 2500 anni le migliori menti si sono esercitate a risolvere il problema della misura del consenso e della sua traduzione in governo. L’impressione è che non ne siano venute a capo. Un teorema del premio Nobel per l’economia Kenneth Arrow ha addirittura dimostrato l’impossibilità della democrazia e l’inevitabilità della dittatura (più o meno mascherata). Un altro Nobel, Amartya Sen, ha cercato a fatica qualche scappatoia. Ce lo racconta, con molti aneddoti divertenti, George G. Szpiro nelle 280 pagine del suo saggio "La matematica della democrazia" (Bollati Boringhieri, 29 euro).
Il filosofo Socrate fu condannato a morte a maggioranza: 280 sì contro 221 no. Il suo allievo Platone, ventottenne quando fu emessa la sentenza, non poté trarne un’idea positiva della democrazia. Si impegnò poi nel progetto di una repubblica ideale. Ogni comunità avrebbe dovuto avere 5040 nuclei famigliari perché questo numero ha ben 59 divisori (tutti i numeri da 1 a 10, e poi anche 12, 14, 15, 16 e così via). Ciò permette di ripartire con più equità ricchezze, lavori, tasse. Nessuno doveva possedere più beni del quadruplo di quanto aveva il cittadino più povero. Le scelta dei tutori della legge passava per tre fasi riducendo gli eletti con voto palese da 300 a 100 a 37. Un’altra macchinosa serie di norme doveva portare alla selezione dei governanti. Ammaestrato dalla condanna di Socrate, Platone diffidava delle maggioranze e cercava un governo dei «migliori». Strada scivolosa.
Plinio il Giovane fu il primo a mettere in luce un paradosso della democrazia. Si doveva scegliere tra condanna a morte, messa al bando e assoluzione di un gruppo di schiavi. Il 40% voleva la pena capitale, un altro 40% l’assoluzione. Solo il 20% chiedeva la messa al bando. Vinse la minoranza perché i fautori della pena capitale optarono per quello che secondo loro era il male minore.
Il mistico spagnolo Raimundo Lulio, nato nel 1232, autore di 260 opere di teologia, scienze e matematica, studiò come eleggere la badessa di un monastero. Dimostrò che, se si adotta il metodo dei confronti a coppie di candidati (A vince su B, C perde con D e così via), alla fine può diventare badessa proprio la monaca meno adatta ma che ha vinto la maggior parte dei confronti. Nell’esito paradossale Lulio vedeva la volontà di Dio. Non sarà stata invece la coda del diavolo?
Venne poi l’astronomo francese Charles de Borda, che mise in discussione l’assioma da tutti accettato secondo il quale la maggioranza dei voti a scrutinio segreto esprime l’autentica volontà dell’elettorato: dimostrò che il metodo delle elezioni a maggioranza è corretto esclusivamente se in gara ci sono due candidati. Con tre o più concorrenti il criterio della maggioranza porta a esiti contraddittori. Nel 2000 i verdi fondamentalisti schierati a favore di Nader sottrassero al verde moderato Al Gore voti sufficienti a far vincere l’antiambientalista Bush. Borda lavorò poi alla grande impresa di misurare con estrema precisione il meridiano terrestre al fine di definire la lunghezza del metro. In ciò ebbe successo, ma il suo sistema elettorale fu messo in crisi dal «paradosso di Condorcet», una dimostrazione matematica della inaffidabilità delle decisioni prese a maggioranza semplice.
Seguirono altre tappe sull’aspro sentiero della matematica della democrazia. Laplace, pure lui astronomo, denunciò gli inganni del «voto strategico» quando vengono inserite persone qualitativamente inferiori tra il candidato preferito e i suoi contendenti più pericolosi. Un nodo irrisolto è quello dei resti, arrotondati ora per difetto ora per eccesso: quando sono in gioco vari cantoni come in Svizzera, o Stati, come negli Usa, l’esito è spesso ingiusto (paradosso dell’Alabama). Nel 1928 gli arrotondamenti furono al centro di uno scontro tra le università di Harvard e Cornell, con tanto di articoli su Science . Spietato, Geoge Szpiro dimostra ancora quali vizi si nascondano nelle leggi elettorali della Svizzera (di recente riformata), di Israele e della Francia. Non si salvano né Sarkozy né Hollande.
E l’Italia? Szpiro non ne parla, ma se n’è occupato Andrea Levico, autore di Vota X (Arabafenice, pp. 398 pagine, € 19). Ne emerge chiaramente che «la varietà quasi sbalorditiva di formule elettorali in uso nei diversi Paesi non nasce da meri esercizi di fantasia, bensì è strettamente connessa con la varietà dei sistemi politici e costituzionali. Insomma, ogni legge elettorale ha un senso all’interno del sistema costituzionale e politico in cui opera. E non dobbiamo chiederci quale ci piace di più, ma quale può funzionare e quale no». Auguriamoci che gli eletti si pongano questa domanda. E che rispondano secondo coscienza.