Leonetta Bentivoglio, la Repubblica 22/4/2013, 22 aprile 2013
NÉMIROVSKY ISTRUZIONI PERL’USO
Istruzioni per l’uso dei libri d’Irène Némirovsky, l’esponente oggi più letta della generazione di émigrés
russi scappati dalla Rivoluzione d’Ottobre nella Parigi del primo dopoguerra. Lo dimostrano i milioni di copie vendute, la quarantina di traduzioni meritate dalle sue storie e il lungo elenco di case editrici — per parlare solo dell’Italia — che la stanno sfornando senza sosta, essendo scaduti da poco i settant’anni di protezione dei diritti d’autore (Irène nacque a Kiev nel 1903 e morì ad Auschwitz nel 1942). È un’impresa districarsi tra la folla di titoli oggi in circolazione. Si tratta spesso di ristampe di opere già note, come La pedina sullo scacchieree La preda, ora proposte da Nuovi Editori Riuniti, ma entrambe già edite in passato da Adelphi, la sigla italiana di riferimento della Némirovsky, che la tradusse quasi per intero, da David Golder, il romanzo che le diede la fama nel 1929, fino al successo postumo Suite francese,
che uscì in Francia nel 2004, riemergendo da una valigia custodita dalla figlia Denise Epstein, morta di recente a 83 anni. Quel capolavoro giunse in Italia grazie ad Adelphi nel 2005, dando il via alla leggenda contemporanea della Némirovsky.
Oggi Newton Compton ha ripreso vari libri, da Il ballo a
I cani e i lupi, da Jezabel a Il vino della solitudine.
Parallelamente Castelvecchi ha presentato una bella biografia, La vita di Cechov, e tre racconti ritagliati dall’infanzia dell’autrice, riuniti sotto il titolo
Nascita di una rivoluzione, libretto appartenente al suo filone “russo”. Nell’ambito dell’attuale profusione di testi, Elliot ha messo in catalogo La nemica e Legami di sangue.
In particolare il primo (tradotto da Monica Capuani) è per noi sconosciuto. Apparve nel luglio del 1928 sulla rivista Les Oeuvres libres, firmato con lo pseudonimo Pierre Nérey. Sta per presentarlo in Italia (a metà maggio) anche l’editore Astoria, in un’altra traduzione (Cinzia Bigliosi).
Chi vuole avventurarsi in tale sovrabbondanza, e indagare i rivoli che si diramano dal fiume principale dei libri più famosi, dovrà affrontare qualche forte dislivello. Come quello che separa Suite francese — in grado di descrivere con piglio magistrale l’esodo in massa da Parigi di fronte all’invasione nazista — da Legami di sangue, pubblicato nel 1936 su La Revue des Deux Mondes.
C’è un approccio “laboratoriale” nel modo in cui Irène, in questo racconto, disegna le vicissitudini della famiglia Demestre, messa in crisi da uno dei suoi membri che decide di sacrificare il proprio matrimonio per seguire l’amante in Malesia. Come accade spesso nella galassia Némirovsky, la rottura delle convenzioni mette alla prova lo status sociale e interiore dei personaggi. Ma in questo caso il soffermarsi della scrittura su nozioni “esterne” devitalizza l’esito letterario. Ne risulta una patina di superficie non funzionale ai cardini psicologici dell’impalcatura narrativa. In alcuni momenti
Irène percorre vie di scrittura secondarie, sperimentando il proprio stile più che svilupparlo con pienezza, o abbandonandosi ai vezzi di una scrittura spumosa e levigata. D’altronde ogni grande creatore ha un tallone d’Achille. Nel caso della Némirovsky, consiste in un aspetto stilistico compiaciuto e come “galleggiante”. Certi passaggi del romanzo Due, con le descrizioni estenuanti delle misedei personaggi, possono riflettere tale connotazione.
Il fascino esercitato dalla prosa di Irène resta comunque capillare. Forse la chiave dello charme sta nel respiro ambivalente — e di conseguenza modernissimo — di tutta la sua produzione, che pare vivere all’insegna del doppio. Francofona ma poliglotta e culturalmente variegata, al tempo stesso ucraina, russa e slava, Némirovsky è un’icona fertile di contraddizioni e
paradossi. Niente è più attrattivo, in un tempo liquido come il nostro, di ciò che scivola via dalle mani, e l’impossibilità d’inserirla in caselle unificanti la rende fluida e quindi perversamente attuale. Irène era ebrea, e morì a causa di questo. Ma si convertì al cattolicesimo e nei suoi romanzi cosparge di vetriolo certi ritratti di ebrei avidi e ripugnanti, come l’uomo d’affari di David Golder,
che è un libro di primo piano.
Era una pensatrice libera e spregiudicata, ostile al nazionalsocialismo e sensibile all’ingiustizia dello sfruttamento dei poveri da parte dei ricchi, come ci
svela il suo sguardo acuminato sulle differenze di classe ne I cani e i lupi (1940). Va aggiunto che poche opere, nel Novecento, specchiano la barbarie della guerra come
Suite francese.
Eppure il suo alone di anti-bolscevica (lasciò San Pietroburgo nel 1917, soggiornando con la famiglia in Finlandia e in Svezia prima di approdare in Francia), insieme alla collaborazione a testate antisemite e reazionarie quali Candide e Gringoire, hanno consegnato ai posteri l’immagine di un’autrice di destra. Pulsava in lei quella sostanza ibrida caratterizzante la Francia fra le due guerre, dove individui di spessore come Paul Nizan e Pierre Drieu La Rochelle viaggiavano da una sponda politica all’altra per disinvoltura, disperazione o perplessità intellettuale.
La norma del contrasto “bipolare” tocca anche l’assetto emotivo di una personalità segnata, nella vita, dal rapporto con una madre bella, fatua ed egoista, in acida competizione con la gioventù della figlia. Per un verso Irène fu devastata da quel fantasma; per l’altro la spaventosa genitrice divenne il motore centrale della sua ispirazione. Lo testimoniano libri autobiografici quali
Jezabel e Il vino della solitudine, ma non soltanto: ovunque, in David Goldercome ne Il ballo, spicca il detestabile e frivolo prototipo femminile da cui la scrittrice venne condizionata. Interessante, in tale prospettiva, è La nemica, che contiene la matrice giovanile di quell’ossessione. Protagonista è Gabri, che sullo sfondo della Parigi anni Venti e di una decadente Biarritz scatena un conflitto viscerale con la madre dissoluta e invidiosa della sua freschezza. Prima Gabri le ruba l’amante; poi si suicida. Finale affrettato, rumoroso e vagamente incongruo. Per il lettore arriva come un trauma non del tutto giustificato dall’evoluzione degli eventi.
Da un libro come La preda, ben piantato nel filone “francese” della Némirovsky, balza soprattutto l’affresco di un mondo sull’orlo dell’abisso, che nella sua depressione economica e nel suo vuoto d’ideali denuncia molte analogie con la nostra epoca. Vediamo Jean-Luc Daguerne agitarsi sospinto da un disperato anelito al successo in un contesto — la Francia anni Trenta — sul quale incombe una disoccupazione angosciosa. Un quadro sociale non dissimile incornicia il Christophe Bohun de La pedina sullo scacchiere, segnato dal crack finanziario che aveva affossato il padre, e inerme nella sua assenza di desideri. Sono figure preveggenti nella direzione della modernità. Ma al tempo stesso appaiono lontane, nella durezza del tratto, dall’alito lieve, poetico e sentimentale della Némirovsky “russa”, affiorante con chiarezza, per esempio, in quel libro irrinunciabile, e pervaso dalla nostalgia del passato, che è Come le mosche d’autunno.
C’è insomma la Némirovsky “francese” e quella ancorata alle radici. Forse quando parla della sua Russia, e anche laddove penetra anatomicamente le fumosità emozionali dell’amore, (vedi le relazioni sghembe de Il malinteso
e gli sguardi acuti alle frenesie amorose che attraversano il romanzo Due) Irène esprime al massimo la sua gloriosa
vocazione.