Luiciana Sica, la Repubblica 20/4/2013, 20 aprile 2013
UN SMS A FREUD
«Piuttosto che steso sul lettino, preferirei un paziente appeso al lampadario, ma capace di esprimere parole “luminose” e non così sciatte, opache, ripetitive, sature di senso comune...». Con un certo gusto del paradosso, ad ammettere che molto più di ieri – nella talking cure–
non sempre ci sono “le parole per dirlo”, è Lucio Russo, didatta della Società psicoanalitica italiana, uno studioso di 69 anni dal pensiero singolare. A confermarlo esce da Borla un suo nuovo libro che sembra l’autoritratto di un analista appassionato di un mestiere “impossibile”, per dirla con Freud: si chiama Esperienze, ma già il sottotitolo che rimanda alla “parola nel lavoro psicoanalitico” sollecita un interrogativo inedito e forse di non poco conto.
Nell’epoca delle chat, degli sms, dei tweet, che ne è infatti di quel mito poetico della “parola piena” con il suo potere simbolico di umanizzare la vita e restituirne un senso? Difficilmente la clinica psicoanalitica, basata sulla parola, potrà essere risparmiata dall’impoverimento del linguaggio che investe così rovinosamente la società, la politica, la cultura. Non è certo da ieri che gli analisti lamentano il ricorso massiccio agli psicofarmaci o anche alle terapie brevi che promettono miracoli sempre meno credibili... Ma il trionfo generalizzato della “parola vuota” non sarà per la cura analitica una minaccia più sottile e però anche più pericolosa?
Dottor Russo, lei lavora a Roma sin dagli anni Settanta, vanta una lunga esperienza clinica,... Rispetto al passato, è cambiato il modo in cui parlano i pazienti? Oggi come esprimono i loro pensieri, i sentimenti, i ricordi, i sogni, le fantasie, le paure, i desideri?
«Sempre più spesso con un linguaggio isolato dagli affetti e dalle passioni del corpo, immiserito dall’uso massiccio di internet, dei telefonini, delle parole alla moda copiate e ripetute – comunque seguendo modelli di comunicazione incorporei e privi di relazione con l’interiorità. Oggi il lavoro analitico non si limita ad essere una cura attraverso le parole ma è anche una cura delle parole malate, incapaci di generare la “scintilla” della fantasia, della visionarietà.
Spesso, per l’uso di parole spente e sorde all’ascolto di sé e del-l’altro, la relazione rischia di deragliare su un binario morto».
E allora l’analista che fa?
«All’analista non resta che “prestare” al paziente un linguaggio più creativo, poetico, evocativo, metaforico, mitopoietico... La fantasia sepolta dal chiacchiericcio quotidiano può ridestarsi con una parola più aperta all’ignoto».
Ne siamo proprio certi? In certi casi la missione non risulterà impossibile?
«Non proprio impossibile, ma difficilissima, almeno con quei pazienti che io chiamo i pompieri della parola, così determinati a spegnere l’incendio di ogni passione».
Facciamo qualche esempio... Mettiamo una donna abbandonata dal “suo” uomo. Come può capitare che lo racconti?
«Dipende molto dall’età, ma anche una signora non più giovanissima può dire di un naufragio sentimentale: “Se n’è andato. Non so perché, veramente non ci ho capito niente. Mi ha scritto un sms ed è sparito. Ha detto che s’era stufato, che gli avevo rotto le palle. Però chi se ne frega, vado su internet e me ne trovo un altro...”. Una volta quando una coppia andava in frantumi, i due ne parlavano per ore. Adesso no, spesso neppure
si vedono, non si spiegano nulla, si chiudono nel silenzio, incapaci di affrontare il dolore. Poi, nella stanza dell’analisi, sono del tutto refrattari a mettersi in contatto con le emozioni, a darsi del tempo, ad attraversare la sofferenza. Il più delle volte l’unico desiderio che esprimono è quello di voltare pagina».
I più giovani, invece, loro come parlano d’amore?
«“Mi ha accannato”: anche sopra i vent’anni è con questa espressione gergale che possono riassumere un dietrofront sentimentale quasi sempre imprevedibile e imprevisto. Va anche peggio quando accennano ai progetti professionali, segnati dalla più dolorosa precarietà che spesso assume le forme anche solo apparenti dell’indifferenza: “Che voglio fare? Boh, non lo so. Va bene qualunque cosa, un lavoro vale l’altro. Non
me ne frega niente, tanto si sa che non dura...».
Così i ragazzi... E i padri? Come interpretano il loro ruolo, come parlano dei figli?
«Quando sono padri presenti, il rischio molto diffuso è che ne parlino con un sentimento eccessivo di possessività. Spesso si lamentano che il figlio sia troppo attaccato alla madre, con cui tendono a rivaleggiare. Dicono, come innamorati delusi “Penso sempre a lui, gli dò tantissimo e lui non mi si fila, non ha bisogno di me..”. Sono padri infantili che non sanno riconoscere i loro figli, non ne accettano la radicale alterità e anzi s’illudono di ricavarne una qualche gratificazione personale. Non è facile aiutare questi “mammi” più bisognosi di sostegno che capaci di una attenzione autentica. Non sono una rarità quei genitori fragilissimi che pretendono di “appoggiarsi”
ai loro figli, senza rendersi conto del danno che può produrre un ribaltamento dei ruoli così sconcertante».
Cosa dicono questi rapidi esempi?
«Dicono come l’impoverimento del linguaggio si rifletta direttamente sull’esperienza analitica e vada di pari passo con un inaridimento della realtà psichica che produce parole isolate da ogni pathos e prive dell’amore per la verità.
Le parole dell’inconscio, che la coscienza non riesce ad ascoltare se non come brusio indistinto, sono formate da frammenti, sono fatte di carne, di affetti vivi e disordinati, senza le costanti che appartengono all’uso maggiore della lingua. Sono soprattutto quelle parole che oggi difettano in analisi».
Mancano anche quando si raccontano i sogni – elemento che caratterizza l’analisi?
«A volte i pazienti li raccontano come fossero dei postini che portano all’analista una lettera. Non c’è l’esperienza del sogno, la partecipazione affettiva, la capacità di restituire le emozioni legate alle immagini. Magari ti senti dire con un’aria piuttosto neutra, distaccata: ho fatto un sogno, succedeva questo e quest’altro... Allora – come si fa normalmente in analisi – cerchi di sollecitare delle associazioni. “Che cosa le fa venire in mente?”, provi a chiedere. Spesso segue una pausa, un silenzio imbarazzato, interrotto da una frase del tipo: “Ma veramente non so proprio cosa dire.
Non mi vengono le parole...”.
E poi, anche: “Dottò, me lo interpreta lei?”».