Laura Laurenzi, la Repubblica 20/4/2013, 20 aprile 2013
“COSÌ CREO UNO STILE SU MISURA”
Eccolo l’ambasciatore del marchio, Patrick-Louis Vuitton. Quinta generazione, 61 anni, schivo, nemico delle interviste, è seduto nel salotto del villino liberty, la casa storica della dinastia Vuitton, ad Asnières, alle porte di Parigi. È il responsabile del settore più esclusivo di una maison che rappresenta il non plus ultra del lusso: il “su misura”. Attraversi il giardino e scopri la fabbrica: è da qui che escono bauli, armadi viaggianti come quelli dell’imperatrice Eugenia, cappelliere, lo scrittoio portatile di Hemingway, il porta vestiti per le bambole con cui giocava Elisabetta ben prima di diventare regina e altre borse e valigie anomale e fuori serie. Lo incontriamo alla vigilia dell’apertura della Maison Louis Vuitton a Venezia, «città simbolo stesso del viaggio e dell’apertura ad altri mondi », come la definisce Patrick.
Davvero oggi c’è ancora gente che si fa fare bauli o valigie speciali su misura?
«Oggi come cent’anni fa: il loro numero è quasi uguale, una media di 400 commande speciale l’anno: un’enormità».
Qual è a suo parere la valigia ideale?
«Quella che ha le dimensioni giuste per contenere esattamente tutto ciò di cui si ha bisogno, e per proteggerlo».
Una valigia robusta però tende ad essere troppo pesante.
«Più rendi leggero un bagaglio più lo rendi fragile. Il dilemma è scegliere fra solidità e leggerezza. Io preferisco sempre la solidità. Comunque negli ultimi 40 anni abbiamo fatto passi da gigante nella ricerca di nuovi materiali».
Qual è la sua definizione del lusso?
«È un concetto altamente soggettivo. Per me il vero lusso è il tempo. Stare seduti nella terrazza di un ristorante a Venezia a contemplare il paesaggio».
Cosa rappresenta il vostro nuovo spazio a Venezia?
«Con i suoi programmi di mostre, la Maison Louis Vuitton Venezia è un omaggio dovuto alla città d’arte per eccellenza».
In che misura risentite della crisi?
«Abbiamo una statura internazionale, con 460 negozi sparsi nel mondo. La crisi non investe tutti i Paesi. E comunque in momenti difficili c’è la tendenza ad acquistare oggetti di lusso. Sono vissuti come bene rifugio».
Come spiega che sia nelle valigie che nelle borse continua ad andare per la maggiore la tela con il monogramma LV?
«Perché evoca più di ogni altra cosa il nostro marchio: tradizione e innovazione».
Sono anche le borse più contraffatte.
«La contraffazione esiste in tanti settori: la gioielleria, l’abbigliamento, i motori, persino i farmaci. Noi alla contraffazione abbiamo dichiarato una guerra totale. Contraffazione significa denaro sporco, riciclaggio, sfruttamento, spaccio di droga, terrorismo ».
Che lavoro le sarebbe piaciuto fare se non fosse stato l’erede della dinastia Vuitton?
«Il veterinario di campagna. Ho anche studiato un po’ la materia e sono io a curare i 130 cani da caccia e la quarantina di cavalli che ho nella nostra tenuta nella zona di Sologne, un centinaio di chilometri a sud di Parigi».
Rappresentare la quinta generazione del casato è più una responsabilità o più un privilegio?
«Mentirei se dicessi che non è una cosa gradevole. Ma comporta anche un grosso carico di responsabilità: nel senso che ho l’obbligo di fare uscire dai nostri atelier un prodotto che sia all’altezza, se non migliore, di quello creato con fatica da mio padre, da mio nonno, dal mio bisnonno, dal nonno di mio nonno Louis Vuitton».