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 2013  aprile 20 Sabato calendario

TRA RANCORI E TRADIMENTI IL CUPIO DISSOLVI DEL PD COME LA VECCHIA DC NEL ‘92

DOVEVA accadere ed è accaduto, come si dice con spensierata malinconia. I partiti del resto muoiono proprio così. Fine della simbolica candidatura di Prodi, che se ne stava in Mali. Fine della breve e travagliata leadership di Bersani, che in questi giorni si è visto solo in foto mentre si stringeva ad Alfano. Fine di un gruppo dirigente di ambiziosi, rancorosi e agitatissimi oligarchi, di cui pure si sono perse le tracce negli anfratti di Montecitorio. Fine del Partito democratico, il più sfortunato della storia repubblicana dopo il Partito d’Azione, ma molto meno nobile e onesto e intransigente, anzi proprio il suo contrario.
Ma poi anche: fine di un equivoco. Tale è da considerarsi il Pd nel giorno in cui la mattina i suoi parlamentari acclamano — si badi: acclamano — il fondatore dell’Ulivo, l’unico che ha sconfitto per due volte Berlusconi, e cinque ore dopo cento e uno di loro lo fanno secco con una o più congiure di Palazzo eventualmente intrecciatesi l’una con l’altra, ma senza che occhio o cervello o cuore riescano a individuare non solo chi le ha ideate, organizzate e ne ha fatto parte, ma neanche per quali obiettivi a corto, medio o lungo termine.
Ieri l’altro era toccato al povero Marini. Altri spiegheranno, ragionevolmente, il perché e il per come del voto di ieri. E altro ancora, allungando il tavolo della vicenda interna. Il ritardo con cui il Pd è nato. Il suo peccato originale, la fusione a freddo. La mancata osmosi della cultura della Dc e di quella comunista. L’aver preso i rispettivi vizi di quei due ormai estenuatissimi partiti, cioè correntismo spasmodico e centralismo democratico, più una certa voracità da ceti rampanti di marca craxoide. Quindi la pochezza del dibattito culturale. La stanchezza della democrazia interna. La subalternità estetica ai modelli berlusconiani. La mediocrità della classe dirigente e parlamentare promossa con elezioni primarie per lo meno malintese, se non manipolate — vedi i cinesi a Napoli e i rom a Roma — con l’aggravante di una furbizia da scemi.
Con qualche maligno approfondimento si potrà integrare la disamina con i casi Lusi e Penati, senza dimenticare i magheggi di Bari e l’opposizione alla regione Lazio.
Eppure nella vita, prima ancora che nella storia, esiste un’espressione ancora oggi trasmessa in una lingua morta, quindi su piazza da una ventina di secoli, una formula che spiega ciò che non si riesce a spiegare:
cupio dissolvi, desiderio di dissoluzione, voglia di morire.
Non di rado, e contro il giudizio di quanti si accaniscono a interpretare le questioni del potere con le categorie tradizionali — nel Pd andava molto la retorica salvifica del riformismo e quella delle riforme istituzionali ed elettorali — questa pulsione autodistruttiva trova più spesso di quanto s’immagini applicazioni di gruppo.
Tanto più inconfessabili quanto più di comune accordo dissimulate.
Fisica e psicanalisi potrebbero essere utili a spiegare questa specie di campo magnetico dell’anima. La faccenda non è comunque da prendere sottogamba. Se il
cupio dissolvi trova la sua prima testimonianza in una lettera di San Paolo (ai Filippesi), sempre rimanendo in ambito biblico si legge nei Salmi: «Sprofondano i popoli nella fossa che hanno scavato/ nella rete che hanno teso s’impiglia il loro piede».
Per farla breve e adattarla alla corrida di Montecitorio: nel Pd regnava la discordia; e al di là del candidato alla Presidenza della Repubblica tutti odiavano tutti. Una mappa ragionata dei rancori occuperebbe tre o quattro pagine di Repubblica, con il dovuto corredo infografico. I risultati di questo sistema di relazioni si sono visti nella prima e nella quarta votazione, con il sacrificio umano di Marini e il martirio di Prodi.
Le elezioni per il Quirinale sembrano fatte apposta per determinare questo esito diabolico. Se si ritiene troppo pulp l’evocazione della macelleria, animali per animali varrà la pena di menzionare uno dei più fulminei aforismi che un autore polacco, Stanislav Jerzy Lec, ha creato per designare la politica: «Corse di cavalli di Troia» (La vita in una frase, Rizzoli, 2008).
Così il pensiero corre ad altre votazioni presidenziali e ad altri partiti che senza immaginarlo e senza nemmeno accorgersene si avviavano a cuor leggero, o meglio desideravano la loro stessa dissoluzione. E allora sembra di rivivere anche dal punto di vista climatico il maggio spaventoso del 1992, un Transatlantico pure allora denso di smanie, superbie e risentimenti. La Dc che propose all’unanimità Forlani per quell’alta poltrona, e poi franchi tiratori andreottiani e della sinistra lo pugnalarono: così come ieri i grandi elettori del Pd hanno accoltellato alle spalle il professor Prodi, che oltretutto se ne stava in Africa. Dice: fu un complotto per spedire sul Colle il Divo Giulio, poi l’attentatuni» di Capaci bloccò quella corsa. Ma chi c’era ricorda abbastanza bene, e con il dovuto sussidio documentario, che lì per lì non si capiva niente del chi e del perché il povero Forlani, e poi Vassalli, e Leo Valiani, vennero massacrati in quella stessa aula che ha visto le esecuzione di questi giorni.
E viene spontaneo riflettere alla Dc che cominciò a morire proprio allora, così come oggi è il Pd che sta andando incontro al suo destino. E non c’è più nulla da fare, nulla da capire. Se non che tutto finisce, anzi addirittura desidera di finire, e forse è per questo che in certe occasioni la divinità acceca coloro che vuole perdere, come pure si dice in latino — e ancora una volta separare la politica dalla teologia non solo è
difficile, ma anche vano.