Sebastiano Messina, la Repubblica 20/4/2013, 20 aprile 2013
DAL SOGNO DI PALAZZO CHIGI AGLI AUTOGOL LA PARABOLA DI BERSANI RIFORMISTA PADANO
TRE mesi fa era il sicuro vincitore, con il Pd che tutti i sondaggi davano dai 10 ai 15 punti al di sopra del Pdl berlusconiano, e dunque lui si preparava a «un governo di combattimento», prometteva “l’Italia giusta” e garantiva al popolo del centrosinistra: «Ancora pochi giorni e smacchieremo il giaguaro». Oggi, a cinquanta giorni dal voto di febbraio, Pierluigi Bersani non ha vinto le elezioni, non ha “smacchiato il giaguaro”, non ha ottenuto Palazzo Chigi e ha già portato al massacro due fondatori del Partito democratico — prima
Franco Marini e poi Romano Prodi — sul ring per il Quirinale. Tre mesi fa era il potente in irresistibile ascesa circondato di aspiranti, consulenti e rampanti. Oggi l’amara verità è che si è rivelato un perdente, e neppure di successo, sul quale si è scatenata la spietata ironia della Rete: «È così perdente che se partecipasse a una gara di perdenti arriverebbe secondo ».
Peccato, perché lui se l’era immaginata in tutt’altro modo, e anche quelli che l’avevano votato, alla fine del 2009, come leader del Pd dopo l’addio di Veltroni — con il quale i rapporti erano diventati tempestosi, per via di una violenta litigata all’indomani delle dimissioni di Walter — e pure chi si era affidato alla sua bonomia emiliana e si era abituato ai suoi buffi esempi sui quali Maurizio Crozza ha costruito una delle sue più geniali e riuscite imitazioni, al punto che oggi si fa fatica a distinguere la farina
del sacco del comico da quella del segretario. Chi ha detto «Non siam mica qui a pettinar le bambole», Crozza o Bersani? E chi ha detto «Meglio un passerotto in mano che un tacchino sul tetto», Maurizio o Pierluigi?
Il suo “oh ragassi”, è diventato quello che per Berlusconi era il “mi consenta”, la cifra di un’eloquenza spigolosa e saltellante condita con una lodevole autoironia, come quando ha riassunto con una frase da antologia il risultato del 25 febbraio: «Siamo arrivati primi ma non abbiamo vinto».
Bersani aveva un sogno, quello di essere il primo ex comunista a salire lo scalone d’onore di Palazzo Chigi con un voto popolare, e ha continuato a coltivare questo sogno anche dopo il non-successo, invocando un incarico pieno che Napolitano non voluto dargli e dovendosi accontentare di un pre-incarico, proporzionato del resto alla quasi-vittoria. L’inseguimento di quel sogno che svaniva giorno dopo giorno, intrecciandosi con il miraggio di un Pd capace di fare da king maker per la successione di Napolitano, è forse la ragione del disastro finale che lo ha portato alle dimissioni.
Testardo, del resto, lui lo è sempre stato. Sin da quando, ragazzino, faceva il chierichetto nella parrocchia di Bettola, il paesino in provincia di Piacenza dove è nato, figlio di un meccanico-benzinaio. Raccontò una volta il suo parroco di allora che Pierluigi organizzò uno sciopero dei chierichetti, per protestare contro il meccanismo con cui venivano raccolte le offerte durante la messa. Famiglia emiliana, ma non comunista. Anzi. Sua madre, cattolicissima e democristianissima, quando venne a sapere che il figlio aveva preso la tessera del Partito comunista convocò a casa il fratello, sacerdote missionario, affinché convincesse quello scapestrato ragazzo a ripensarci. Ma
Bersani raramente ci ripensa, una volta che si è messo in testa una cosa. Quando seppe che c’era stata l’alluvione di Firenze, nel 1966, decise che voleva andare a dare una mano e partì verso quella città sommersa dal fango, senza sentire chi gli diceva: “Ma dove vai, tu che hai solo quindici anni?”.
È difficile dire se puntasse già alla segreteria del partito, quando cominciò a far politica, come vicepresidente della Comunità montana piacentina. Ma è sicuro che da allora non è più fermato. Consigliere regionale, assessore, vicepresidente della Regione, il tenace Bersani diventa nel 1993 presidente della Regione, e due anni dopo è il primo governatore dell’Emilia Romagna eletto dal popolo. Un quarantenne che ama la concretezza, così impararono a conoscerlo a Roma, prima al partito — nel frattempo diventato Pds — e poi al governo, al quale lo chiamò proprio quel Romano Prodi che ieri ne ha chiesto le dimissioni. Il suo compito era l’esportazione nazionale del modello emiliano, con il suo prezioso bagaglio di pragmatismo e di operosità.
Funzionò. Anche se il meglio, l’ex governatore lo diede nel secondo governo Prodi, con le sue “lenzuolate” che dettavano le regole del riformismo all’emiliana. La portabilità dei mutui, le tariffe delle telefonia mobile, la concorrenza tra le assicurazioni per la responsabilità civile degli automobilisti è tutta farina del sacco di Bersani: c’era sempre qualcuno che tremava, quando lui annunciava “una nuova lenzuolata”.
Al partito c’è arrivato dopo due rinunce. Doveva prendere il posto di Veltroni, quando Walter diventò sindaco di Roma, ma D’Alema lo convinse che non era ancora il suo momento, era meglio lasciare il posto a Piero Fassino. Voleva correre alle primarie contro lo stesso Veltroni, nel 2007, ma poi si convinse che non era
il caso: «Il partito sarebbe disorientato » spiegò agli amici. Ma quando Veltroni gettò la spugna e finì la reggenza di Franceschini, Bersani capì che era arrivato il suo momento. E vinse le primarie, con l’appoggio di gran parte di quegli iscritti che venivano come lui dal Pci, dal Pds e poi dai Ds.
La penultima puntata — per ora — della sua storia politica è stata la sfida con Matteo Renzi, un riformatore emiliano contro un rottamatore fiorentino. Una sfida che Bersani avrebbe anche potuto aggirare, invocando lo statuto che gli dava diritto a correre come premier, e invece lui ha voluto combatterla. E l’ha vinta (ma
non stravinta), trascinando tutto il partito in una campagna democratica che ha ridato non solo agli iscritti al Pd il gusto di una politica fatta di dibattiti, di scontri aperti e di votazioni vere.
Era grazie a quella campagna, che il Pd si presentava nettamente in testa, in tutti i sondaggi, alla vigilia delle elezioni politiche del 2013. A Bersani toccava solo il compito di tirare un rigore a porta vuota, o almeno questo deve aver pensato lui a giudicare dalla campagna elettorale del Pd. E invece è finita in un altro modo, con un risultato che ha dato il via al disastro. E chissà se oggi risponderebbe a Lilli Gruber come fece dopo il voto delle europee (quelle che costarono la poltrona a Veltroni), quando la conduttrice gli chiese: «Scusi, ma come si fa a perdere sette punti percentuali in pochi mesi?». E lui, serafico: «Come abbiamo fatto noi».