Antonio Gnoli, la Repubblica 21/4/2013, 21 aprile 2013
PIERO ANGELA
Nel disorientamento in cui ci troviamo a vivere, Piero Angela mi appare come l’usato sicuro. Da più di trent’anni conduce Quark, una trasmissione televisiva di successo; ha scritto 35 libri e sebbene siano tanti, gli va riconosciuta passione, competenza e una rara capacità divulgativa. Per un paese che ha spesso ignorato la cultura scientifica il risultato è notevole. «Perché dovremmo essere un paese con una cultura all’altezza delle nostre trasformazioni se tutto qui è in ritardo?», dice sconsolato il nostro amico della ragione.
Al volto pubblico di Angela si accompagna l’uomo sobrio e riservato. E nel ricevermi in cucina non so se in lui sia più importante la dimessa semplicità di quell’accoglienza che non la gelosa preclusione a condividere gli altri spazi. Sediamo a un tavolino di un luogo pur sempre particolare. Sulle pareti decine e decine di utensili e oggetti in legno, per lo più di derivazione africana. E un arazzo di chiara impronta indiana.
Ama viaggiare?
«Sì, e non solo per lavoro. Per tantissimi anni ho viaggiato in tenda e sacco a pelo. Fuori dai giri organizzati, dove ogni cosa è a disposizione».
È un praticante dell’avventura?
«Non intendo in quel senso. Viaggiare è ancora la sola forma che abbiamo per realizzare la macchina del tempo. Vai in un posto e scopri di essere ancora in pieno medioevo, oppure finisci nella preistoria o magari in un luogo avveniristico. Ho spesso viaggiato da solo, a piedi, a dorso di un animale o con un fuoristrada. L’importante era farlo fuori dalle rotte usuali».
È bella l’idea della macchina del tempo.
«Ha varie applicazioni. Quando ci fu il centocinquantenario della battaglia di Waterloo, mi posi il problema che 150 anni sono due volte 75. E che quindi due generazioni si sarebbero potute incrociare. Riuscii a incontrare due persone che erano state testimoni diretti di quell’evento. Non abbiamo idea di come la nostra vita sia lunghissima, al di là di certi limiti biologici».
E anche molto condizionata.
«L’ambiente fornisce gli strumenti per adattarci. Modificalo e cominciano i problemi ».
Di che natura?
«Le culture sono adattabili, ma occorre tempo. Se noi in questo momento provassimo a vivere in Amazzonia rischieremmo di morire. Non sapremmo che acqua bere, che pesci pescare, che selvaggina cacciare, dove dormire E lo stesso accadrebbe con loro se si spostassero da noi. Ognuno funziona bene nel proprio mondo».
Come è stato il suo di ambiente, intendo quello familiare?
«Un papà psichiatra e una mamma che voleva a tutti i costi che studiassi musica».
Famiglia di dove?
«Piemontese a perdita d’occhio».
E lei studia musica?
«Provano a impormela con un pianoforte acquistato per l’occasione. Quando arrivava la maestra con mia sorella ci chiudevamo nei rispettivi bagni».
Cos’è che non funzionava?
«La consideravo una punizione. La stessa cosa mi accadeva a scuola dove non ho mai particolarmente brillato. Solo quando la mamma rinunciò all’insegnante di musica ho cominciato ad appassionarmi al pianoforte. E diventai un eccellente pianista di jazz. Avevo 18 anni, uscivamo dalla guerra e c’era molta voglia di vivere».
Come erano stati gli anni della guerra?
«Dopo il primo anno di bombardamenti sfollammo da Torino riparando a San Maurizio Canavese, un paesino a una ventina di chilometri, dove mio padre dirigeva una clinica per malattie mentali. Restammo lì dal 1942 al 1945».
Cosa faceva?
«Era uno stato di semi costrizione. Leggevo, passeggiavo, a volte giocavo a bridge con alcuni pazienti della clinica. Scoprii in seguito che molti di loro erano ebrei scappati dai fascisti. Mio padre li aveva accolti e nascosti. Uno di loro, Renzo Segre, scrisse un diario in cui raccontò questa storia che poi la figlia fece pubblicare. Uscì qualche anno fa il libro per Sellerio,
Venti mesi, e la cosa divenne pubblica. A tal punto che se ne interessarono le autorità israeliane. E mio padre è oggi ricordato nel Giardino dei Giusti».
Non ha mai desiderato seguire le sue orme?
«No, anche se aveva avuto trascorsi interessanti: medico in Congo, poi specializzazione, nei primi del Novecento, a Parigi con un allievo di Charcot. La verità è che mi destinò a ingegneria. Solo che quel matrimonio combinato non funzionò. Mi fu utile però. Con altri amici dell’università mettemmo insieme una band jazzistica che suonava nei locali».
Ho letto che eravate così bravi da approdare alla Capannina.
«Eravamo bravi e andammo alla Capannina, non a quella di Forte dei Marmi ma a Viareggio. Hanno detto che suonammo perché invitati dal grande Sergio Bernardini. Ma lui all’epoca, sto parlando del 1948, non era ancora il patron di successo, bensì solo il gestore insieme al fratello e alla madre di un bar collegato a quel locale».
Non ha mai pensato che la musica potesse diventare la sua vera professione?
«Per un periodo l’ho sperato. Ero giunto all’ottavo anno di conservatorio, diedi l’esame di armonia e incominciai a comporre musiche per documentari. Ma alla fine capii che per me era solo un hobby».
Non si sentiva sufficientemente bravo?
«Al contrario. Ricordo che all’inizio degli anni Cinquanta registrai due pezzi al pianoforte per un programma televisivo ancora sperimentale, ma la cosa finì lì. Qualche anno fa un collega ha ripescato quella registrazione e l’ha fatta ascoltare a Dado Moroni, che considero il più grande pianista italiano di jazz. E lui che esegue numerose tournée all’estero a sua volta l’ha fatta ascoltare a degli amici, grandi esperti, che
l’hanno scambiata per un’esecuzione di Art Tatum. Questo per dire che ero particolarmente bravo. Ma alla fine ho preferito usare il pianoforte solo per piacere. O meglio: a un certo punto entrai in Rai e questo ha cambiato le mie priorità».
Lei è un esempio della buona televisione.
«Parlando soprattutto di scienza, nelle sue varie espressioni, ho sempre cercato di fare un lavoro artigianale che traducesse un sapere oggettivamente complicato per un pubblico desideroso di conoscere, ma dotato di scarsi strumenti».
Si chiama divulgazione.
«Ed è importante perché il nostro paese è a vocazione letteraria e giuridica e non ha ancora ben chiaro il ruolo della ricerca, dell’innovazione tecnologica e come tutto ciò sia il vero requisito per creare ricchezza».
Non c’è un eccesso di brama, di attrazione per la ricchezza?
«Non sto parlando dei soldi. O della finanza. Ma dell’opportunità di dare lavoro, pensioni, sanità. In genere si pensa che debba essere la politica a creare ricchezza. In realtà non la crea, ma la distribuisce».
E lo ha fatto molto male.
«Non c’è dubbio. Ma non è anche un po’ nostra la responsabilità? Non è dipeso anche dal fatto di non avere una diffusa cultura all’altezza dei problemi e delle sfide che ci si pongono? La creazione della ricchezza è oggi sempre più determinata dal software, cioè dall’intelligenza trasferita nei prodotti della ricerca. C’è una transizione dalla società materiale a immateriale, della quale non prendiamo coscienza. Prima erano la terra, il lavoro, il capitale, la fabbrica a contare. Oggi sono l’intelligenza, l’ideazione e la capacità organizzativa. E noi?».
«Un’autorevole classifica ci colloca all’ottantatreesimo posto come paese dove è interessante investire. Non è incoraggiante».
Cos’è che non va?
«Siamo un paese, nonostante tutto, straordinario. Ci sono tante intelligenze individuali, manca un’intelligenza di sistema, questo è il problema dell’Italia».
Restiamo un paese a vocazione feudale?
«Sì, e non sappiamo sfruttare quello che c’è di positivo. Il punto è che occorre saper guidare una società».
È una posizione illuminista dove razionalità e calcolo sono gli strumenti necessari. Ma non trova che questa società sia difficile da governare perché ormai è troppo complessa?
«Può anche essere. Ma prendiamo l’immondizia. A Stoccolma o a Berlino è un’esperienza di routine. A Napoli o a Palermo è una tragedia. È colpa dell’immondizia o della gestione? Lo stesso vale per la tecnologia».
Proprio la tecnologia ha preso a tal punto il sopravvento da diventare indipendente dalla nostra capacità di guidarla.
«L’alternativa qual è? Fermate il mondo voglio scendere».
A un certo punto ci verrà presentato il conto. O no?
«Sto leggendo un libro: Race Against the Machine,
“La corsa contro la macchina”, dove si parla di una tecnologia che sta esplodendo perché va a una velocità altissima. Secondo questa tesi si è creata una forbice tra sviluppo culturale e sviluppo tecnologico e noi siamo sempre meno in grado di controllare quest’ultimo a nostro vantaggio».
Insomma la tecnologia da alleata sta diventando una nemica dell’uomo. Ma se va troppo forte bisogna decelerare, come suggeriscono i teorici della decrescita?
«È facile a dirsi. Ma che ne pensano la Cina, l’India, la Corea, il Brasile e tra un po’ l’Africa? La decrescita non solo è auspicabile ma perfino possibile. Però in un senso diverso: bisogna diminuire gli sprechi, ma per farlo occorre avere nuove capacità di gestione della tecnologia. La decrescita non può essere il “volemose bene”. Del resto noi stiamo decrescendo e non per nostra volontà. La conseguenza sono i fallimenti a catena, la disoccupazione, i suicidi. Per meritare tecnologia e sviluppo da una società che ti dà meno ore di lavoro e più ricchezza devi avere una cultura, una politica, un’opinione pubblica e un’informazione all’altezza. Nel mio piccolo è quello che ho tentato di fare».
È l’ultimo illuminista.
«Non so se riconoscermi. In fondo, non c’è solo la ragione. In gran parte il cervello funziona sugli istinti e le emozioni senza le quali non si memorizza ».
E la socialità?
«Fondamentale».
Dà l’idea di essere un uomo molto appartato.
«Non frequento salotti. Con mia moglie, anche lei piemontese, facciamo una vita molto ritirata. Mangiamo alle sette di sera e alle undici andiamo a dormire».
L’emotività quando scatta?
«Per me scatta soprattutto quando mi siedo al pianoforte. Il jazz non è esecuzione ma composizione. E si manifesta in una creatività più spinta che se suonassi Beethoven o Liszt».
Creare è una parola impegnativa.
«È come quando si scrive. C’è una quantità enorme di persone che scrive poesie».
Bisognerebbe impedirgli di farlo.
«Perché? Se libera la mente e arricchisce va bene. Poi se qualcosa mi va di traversovado alla tastiera e mi passa tutto».