Andrea Greco, la Repubblica, Affari & Finanza 22/4/2013, 22 aprile 2013
POCHI PRESTITI, TASSI ALTI PROCESSO ALLE BANCHE
Il credito alle imprese è la nuova emergenza europea. Il moltiplicarsi di iniziative dimostra che i problemi originati dalla prima crisi bancaria e acuiti con la seconda, due anni fa, sono inderogabili. E se il brusio diventa urlo è perché gli effetti della dieta cui gli istituti hanno sottoposto i bilanci sta piegando le nazioni più fragili d’Europa con disoccupazione, moria di aziende, blocco di progettualità futura. “Fatica da aggiustamento”, scrive il Fmi. B ell’eufemismo. I dati in quelle nazioni dicono che siamo al bivio: o politica e attori creano politiche fiscali e canali nuovi di ricorso al credito - sottraendolo alle banche che da sole non sanno garantirlo oppure qualche economia implodente passerà all’esplosione, con probabilità di default e choc sistemici. Mario Draghi, il totem degli investitori europei, lo ha detto con l’attenzione preoccupata di chi sa che la Bce ha fatto molto, e non ha strumenti così fini per risolvere la grana. «Se le banche in alcuni paesi dell’Eurozona non prestano soldi a tassi ragionevoli, le conseguenze per l’economia dell’area sono gravi - ha detto all’università di Amsterdam - Settore bancario e mercato finanziario dell’area euro si sono frammentati: è dannoso in quanto l’Eurozona è un’economia a base bancaria ». La frustrazione di Draghi che un anno fa inondò l’Europa bancaria con 1.000 miliardi al tasso 1% triennale perché
sostenessero i titoli governativi, fronteggiassero le scadenze di bond propri e oliassero il credito - è crescente. «In alcuni paesi la nostra politica monetaria estremamente accomodante ricade solo in parte su imprese e famiglie, che affrontano condizioni di finanziamento peggiori rispetto a concorrenti con pari livello di rischio di paesi non sotto stress». Non ci sono i nomi ma è facile aggiungerli: Italia, Spagna e gli altri “periferici” non raccolgono i benefici del denaro facile, perché la cinghia di trasmissione monetaria s’è inceppata dopo il rincaro di alcuni spread e lo schiacciamento di altri. È, quindi, piuttosto inutile che la Bce possa ridurre il costo del denaro (oggi allo 0,75%), come ha lasciato intendere il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann. Tanto più che Draghi starebbe riflettendo su misure che lui chiama «non convenzionali»; e un paio di settimane fa risulta abbia convocato una riunione segreta dei primi 15 ceo bancari europei, per parlare di credit crunch e Pmi. Più appropriato, tra gli appelli pubblici, quello del Fondo Monetario, a «rendere fluida la trasmissione monetaria, in modo che i bassi tassi si trasformino in bassi tassi anche per le piccole e medie imprese». L’Italia, cui il Financial Times ha dedicato il titolo Lost in stagnation, è il grande malato del caso. Nei primi tre mesi dell’anno sono scomparse 31mila aziende. I finanziamenti bancari (dato Abi) a famiglie e imprese a marzo sono scesi di un 2,3%, inanellando l’11° calo mensile filato. In compenso, «la rischiosità dei prestiti rimane elevata», con sofferenze nette salite - in febbraio - a 61,7 miliardi, mentre quelle lorde sono a 127,7 miliardi. I tassi di interesse medi applicati ai prestiti sono stabili, al 3,74% (ma c’è un calo di 40 punti base dal marzo 2012), mentre il tasso medio della raccolta bancaria è fermo al 2,03%, con un margine quindi di 171 punti base. Anch’esso, tristemente per gli istituti, è in netta flessione (32 punti base) da un anno fa; ma il margine perso è circa 300 punti dall’avvio della crisi finanziaria. «L’ammontare dei prestiti alla clientela resta nettamente superiore alla raccolta nel paese», commenta Gianfranco Torriero, direttore centrale dell’Abi. «Vero è che le imprese italiane sono più bancarizzate delle altre, quindi più dipendenti dal credito bancario, e in questa fase ne risentono ». L’associazione delle banche si dice «favorevole a una modifica della struttura finanziaria delle imprese», cioè a debancarizzare un po’ il sistema: l’estate scorsa ha appoggiato le misure del ministero Passera per i mini-bond, cercando di far ampliare i vincoli del codice civile, che contingenta la percentuale di obbligazioni che un’impresa può emettere. In più l’Abi ha messo in campo le moratorie con famiglie e imprese. Ma tutte queste misure rischiano di rivelarsi dei palliativi raccontano dietro le quinte altri banchieri - finché non saranno ristorati alcuni pilastri operativi. Come la redditività del settore, oggi inchiodata al 2% medio di ritorno sul capitale, e che rende impossibile raccogliere il capitale (che del credito è il contrappeso, specie quando i crediti si trasformano facilmente in perdite come ora). Poi c’è la nota prociclicità, che costringe il settore all’iperbole. «Una certa prociclicità è insita nel settore bancario e in parte dovuta alla regolamentazione che tende a irrigidirsi nei momenti di crisi. La stessa Basilea 2 e l’evoluzione verso modelli matematici di credit scoring, ha reso alcune decisioni di credito più dipendenti da fotografie statiche piuttosto che da considerazioni prospettiche. Proprio per questo inserire sul mercato del credito nuovi attori come le Sgr e i gestori internazionali, più inclini a ragionare su margini e previsioni future, avrebbe una funzione stabilizzante». Altrimenti si rischiano eccessi opposti a quelli del 2005, quando gli istituti europei sgomitavano per finanziare qualunque iniziativa con margini minimi. Mentre oggi che gli scarti reali sui tassi sono ampi fino al 5-6% tentennano, concentrandosi sul carry trade governativo o sul riacquisto di propri bond deprezzati. Come se ne esce? Secondo Torriero c’è solo un modo, «il più banale ma anche il più complesso: ritornare alla crescita. Va invertito il trend macroeconomico. È inutile che le banche diano crediti in più, se poi questi rischiano di trasformarsi in perdite su crediti. Dal 2008 in Italia c’è stata una riduzione di investimenti del 23%: se il paese non sa rilanciare la domanda per consumi e investimenti, dandosi nuove prospettive, gli impieghi bancari non riusciranno da soli a trasformarsi in crescita del Paese». Serve la domanda, insomma, e perché ritorni serve un governo saldo in sella che possa disegnare gli assetti del futuro. Anche perché il paese non sembra ancora capace di darsi una politica economica efficace, che sostituisca la catena di svalutazione- inflazione- esportazioni (con il debito pubblico ad ammortizzare le diseconomie) mandata in archivio dall’euro. Va ripensata la domanda interna, almeno la privata, mentre la pubblica è vincolata ai 2mila miliardi del debito. Nell’attesa di avere un governo che sappia porsi la questione, non resta agli attori che intraprendere la pista del credito non bancario. E in questa fase del mercato i compratori non mancano: anzi. Giorni fa Ei Towers, società tutta italiana che gestisce ripetitori tv e tlc, ha ampliato da 200 a 230 milioni un bond high yield (tripla B di Fitch) a un tasso del 4%, dopo l’inoltro di domande per 2,2 miliardi. Dieci volte l’offerta, 280 controparti, l’80% fondi e istituzionali del resto d’Europa. È a questi cacciatori di rendimenti che le imprese italiane devono vendere il debito. L’opzione di cartolarizzare debiti di imprese e collocarli sul mercato, di cui si inizia a ragionare, ha “solo” un paio di caveat. Dapprima trovare i veicoli di investimento appropriati per gli investitori italiani, dato che la normativa Ucits cui sono sottoposti i fondi comuni limita al 10% gli strumenti non liquidi (e i crediti alle pmi, pur preziosi e redditizi, liquidi lo sono poco). Inoltre c’è il problema di “creare un mercato”, o almeno meccanismi di dialogo tra impresa, banca prestatrice e compratori di debito. Arca Sgr, che ha incaricato Prometeia di uno studio di fattibilità a riguardo, è tra gli operatori più interessati. «Far nascere una nuova asset class in questa nicchia sarebbe la classica situazione win win - dice Marco Vicinanza, vice dg di Arca Sgr - Le imprese che non hanno credito, le banche che non sono in condizioni di erogarlo per i rischi sul capitale, i gestori in cerca di investimenti redditizi ». Meno del 10% dell’esposizione corporate italiana è in bond, e i loro rating tripla B oggi pagano tassi simili alle triple A di fine 2011.