Marco Rossi-Doria, La Stampa 21/4/2013, 21 aprile 2013
COSI’ LA SCUOLA MEDIA UNICA MISE IN MOTO L’ITALIA
Pochi giorni prima del Natale del 1962 venne approvata dal primo centrosinistra la legge n. 1859, che istituì la scuola media unificata, applicando finalmente la Costituzione della Repubblica che prevedeva otto anni di scuola gratuita e obbligatoria per tutti. La scuola media unica, insieme alla statalizzazione dell’energia elettrica, fu parte delle condizioni programmatiche poste dal partito socialista per terminare l’opposizione e avvicinarsi a un governo insieme alla Dc superando l’alleanza frontista con i comunisti che durava dal 1948.
Così, nell’anno successivo, il 1963/64, le nuove scuole medie aprirono le porte a ben 600 mila ragazzi e ragazze, figli di operai, contadini, artigiani, piccoli commercianti e braccianti, che fino ad allora non erano andati oltre la quinta elementare o l’«avviamento professionale» secondo le norme del 1928.
Immaginiamo la scena. Nell’ottobre del 1962 Gianni e sua cugina Carla, figli di un salumiere e di un operaio edile, finiscono a pieni voti la quinta elementare. Hanno dieci anni. E le famiglie decidono di non mandare i due ragazzi alla scuola media – allora unica via d’accesso ai licei e poi, forse, all’università – ma semmai all’«avviamento», dove per tre anni, sei giorni a settimana, con tuta e arnesi per l’officina o grembiule e attrezzi per i cosiddetti «lavori domestici», tutti comprati dalle famiglie, ci si «ammaestrava» al lavoro e basta. Senza accesso al sapere del mondo. Ed ecco che, con la nuova legge, nell’autunno del 1963, i fratelli di poco minori di Gianni e Carla entrano invece a scuola e studiano Italiano, Matematica, Storia, Geografia, Scienze, Arte, Inglese o Francese, Ginnastica, Musica. E – quel che più conta - hanno le porte aperte all’accesso agli studi superiori. Inoltre fanno almeno un anno di latino - la materia simbolo dell’idea stessa di conoscenza delle classi medie italiane - che fu, infatti, l’oggetto intorno al quale si concentrò la polemica politica.
Anche se oggi vi è un proficuo dibattito sui limiti della nostra scuola media, va ribadito che la riforma fu una conquista storica in termini di eguaglianza. E non solo. La riforma, infatti, ebbe un successo multi-dimensionale perché, partendo dai diritti, spinse in avanti l’economia e la società italiane. Il tasso di quattordicenni in possesso di licenza media passò, nei dieci anni successivi, dal 46,8% all’82,3%. E decine di migliaia di giovani entrarono, poi, sì nei licei ma soprattutto nelle scuole tecniche e professionali con una più forte cultura di base, potenziando il sapere diffuso, avvicinando sapere e lavoro, contribuendo alla trasformazione dell’agricoltura, di ogni settore manifatturiero e del crescente sistema dei servizi. Inoltre l’espansione delle iscrizioni spinse alla costruzione e all’ammodernamento di migliaia di edifici scolastici, favorendo ulteriormente il boom economico e occupazionale già in atto.
Il movimento verso la scuola non riguardò solo la generazione direttamente interessata dalla riforma ma tutta la vasta parte «popolare» del Paese. Non solo i bambini e ragazzi ma gli adulti e anche gli anziani – che in precedenza non avevano raggiunto le conoscenze più basilari – furono investiti dall’onda positiva dell’effetto-traino e spinti a conquistare almeno la licenza elementare. Così, le bambine delle campagne e dei ghetti urbani poveri furono finalmente tutte mandate alle elementari; le scuole serali si riempirono di giovani adulti; la Rai ampliò i suoi programmi di alfabetizzazione consolidando l’idea che per imparare «non è mai troppo tardi». L’analfabetismo totale - il non sapere leggere, scrivere e far di conto in alcun modo – passò dal 13% del 1951 a percentuali comparabili con il resto d’Europa.
Ma torniamo a quel dicembre di mezzo secolo fa, all’aula di Montecitorio. Lì proprio attorno all’idea di uguaglianza vi fu un decisivo dibattito parlamentare. Con motivazioni tese ad aprire scuola e società e superando anche conservatorismi interni, votarono a favore della scuola media unica socialisti, socialdemocratici, democristiani, repubblicani. Invece votarono contro tutte le destre: monarchici, missini, liberali e - con motivazioni opposte e speculari - i comunisti. La destra avversò ogni messa in discussione di una scuola rigidamente divisa tra quella per le classi medie, che si prolunga nel tempo, comprende le discipline del sapere universale necessario per comandare e guadagnare bene e quella per le classi popolari, limitata nel tempo e dedicata ad allenarsi al lavoro manuale. Il provincialismo conservatore italiano si unì a quello reazionario e rimase immobile, convinto, in particolare, che qualsiasi ridimensionamento del latino comportasse una svalutazione dell’idea stessa di cultura.
Ma, ben oltre i conservatorismi della nostra destra, era estraneo a grande parte delle élites italiane l’argomento secondo il quale lo sviluppo economico è legato alla promozione della mobilità sociale, a sua volta possibile grazie all’acquisizione di conoscenze diverse – umanistiche, scientifiche, tecniche - unite dal rigore del metodo e dall’intreccio tra fare e sapere e dal laboratorio didattico come fondamento dei processi di apprendimento che richiedono la partecipazione attiva di bambini e ragazzi. Quello che era accettato in tutto il mondo - dagli Usa all’Inghilterra alla Germania fino ai paesi in via di decolonizzazione in Africa e Asia - non lo era da noi. E la riforma del 1962 spezzava un tabù profondamente radicato nella nostra idea di sapere e apriva al futuro; ma l’evoluzione successiva è stata troppo lenta e faticosa…
A votare contro la riforma vi fu anche il Partito Comunista Italiano. La mediazione individuata nel corso dei lavori fu di introdurre - soltanto in terza media - il latino come materia facoltativa ma necessaria per iscriversi al ginnasio. Dichiaratosi a favore dell’innalzamento dell’obbligo come «fatt o di conquista democratica» il Pci tuttavia si oppose proprio per questo dettaglio: perché bisognava offrire il latino a tutti, altrimenti il nuovo obbligo mostrava «un problema grave di contenuti culturali». In aula, a rispondere alla così motivata dichiarazione di voto contrario del comunista Mario Alicata fu il vero ispiratore della legge, l’azionista liberalsocialista e deputato del Psi, Tristano Codignola: «un movimento popolare dell’importanza del Pci non può affermare il valore della legge e nel contempo annunciare il voto contrario….sostenendo l’equivoco discorso dei contenuti culturali… quando si sa che una legge non sostituisce mai l’uomo che deve applicarla e quindi è in questa nuova struttura di scuola che si apre il discorsi dei contenuti…».
Cinque anni dopo la riforma, nel 1967, con Lettera a una professoressa, fu don Milani, suo sostenitore attivo insieme ai ragazzi di Barbiana, a denunciare ciò che ne impediva la piena applicazione: «il principale difetto della scuola italiana sono i ragazzi che ancora perde». E indicò come porvi rimedio, proponendo di dare di più a chi parte con meno nella vita. Nelle democrazie si chiama «discriminazione positiva». Ed è l’opposto dell’eguaglianza formale perché va alla sostanza delle cose, proprio come dice l’articolo 3 della Costituzione: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli…che, limitando di fatto l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana…».
Ma oggi, il terribile 18,2% di ragazzi - sempre e solo figli dei poveri - che abbandonano scuola e formazione, ci dice che l’Italia deve affrontare ancora proprio questa sfida. E che, pur con tutti i progressi, non abbiamo creato sufficiente scuola del sapere e del fare. E che non siamo stati in grado di sviluppare appieno la discriminazione positiva soprattutto perché abbiamo conservato una scuola basata su un’idea povera di eguaglianza: dare a tutti la stessa cosa nel medesimo tempo. Mentre è possibile un’eguaglianza molto ben articolata, che sappia dare di più e meglio a ciascuno perché prende in considerazione le parti forti e deboli, le inclinazioni, le parti da scoprire di ogni persona in crescita. Molte scuole già lo fanno. Lo facciamo integrando migliaia di bambini non italiani e di bambini con disabilità, in modo molto migliore di quanto si faccia altrove. Eppure l’organizzazione iper-standardizzata è ancora troppo presente; e tante esperienze che sperimentano i modi per conquistare alla scuola chi ne è ancora fuori devono ogni volta misurarsi con questo limite…. E con la mancanza di risorse. La sfida contro troppi abbandoni della scuola deve diventare politica nazionale, sostenuta, finanziata, difesa dalla comunità tutta. E davvero non è più possibile pensare di tagliare i fondi per la scuola quando perdiamo per strada non solo troppi ragazzi ma tante risorse per la crescita del Paese che, oggi più che mai, è intimamente legata alle conoscenze. Ed è interessante notare come, a pagina 38 del «documento dei saggi» consegnato al Presidente Napolitano, vi sia un capitolo dedicato al contrasto dell’abbandono scolastico come fattore determinante per la crescita.
Perciò: è una necessità ridare a scuola, università e ricerca – come investimento per il nostro futuro – gli 8,4 miliardi tagliati in modo sconsiderato dal 2008 al 2011. Questo è, per quanto complicato, un passaggio politico decisivo della nuova auspicata stagione italiana, che riveste la medesima importanza della restituzione dei crediti alle imprese. Proprio il successo della riforma di cinquant’anni fa, insieme con la ferita aperta degli abbandoni scolastici, ci mostra che è questa la via da prendere.