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 2013  aprile 21 Domenica calendario

GIBELLINA, L’ULTIMO TERREMOTO

In altri Paesi, già sarebbe stata proclamata dall’Unesco patrimonio dell’umanità. In Italia, invece, è stata abbandonata, lasciata sola. Gibellina sta morendo. Eppure, ci troviamo dinanzi a un’esperienza unica, forse irripetibile: non solo da noi, ma anche a livello internazionale.
Tutto comincia nella notte tra il 14 e il 15 gennaio 1968, quando la Valle del Belice viene colpita da un terremoto. Come reagire? Affidarsi al «solito» assistenzialismo? Rassegnarsi? No, la sfida è altrove, come afferma Leonardo Sciascia all’indomani del sisma: dare una nuova speranza a un popolo di «tenace concetto». Ma come, appunto? La risposta del sindaco di Gibellina, Ludovico Corrao, è inattesa, addirittura scandalosa: la rinascita di quella terra ferita può passare attraverso le arti. Giudicato da alcuni un «eroe dell’inutile», Corrao dà vita a un’avventura solitaria e coraggiosa: vuole trasformare la tragedia in occasione di riscatto morale. Decide, perciò, di invitare alcune tra le più importanti voci della pittura, della scultura, del teatro, della musica e del letteratura a lavorare tra le macerie. Nel corso degli anni — come ha ricostruito Valentina Garavaglia in un recente libro, L’effimero e l’eterno. L’esperienza teatrale di Gibellina (Bulzoni) — Consagra e Burri, Schifano e Paladino, Arnaldo Pomodoro e Andrea Cascella, Boetti e Wilson, Cage e Accardi, Turcato e Melotti, Isgrò e Beuys, Long e Angeli, Venezia e Quaroni, Mendini e tanti altri sono chiamati a Gibellina: diventano parti di un’ambiziosa scommessa, che li porta a condividere con la gente del posto la quotidianità, in nome di un progetto visionario. Per lunghi periodi, artisti di diverse generazioni e sensibilità alloggiano nel Belice, lasciando come tracce dei loro soggiorni sculture, installazioni, performance, spettacoli, eventi. Accostandosi, quelle tracce hanno trasformato Gibellina in un immenso teatro in divenire, nel quale il rapporto tra la scena e la platea è ribaltato. Una «follia urbanistico-architettonica da salsa artistica» (secondo Federico Zeri)? No, piuttosto una vasta scenografia da percorrere. Una sorta di opera d’arte totale, che tiene in sé segni, colori, gesti, materie. E dietro cui si nasconde una precisa filosofia, della quale Corrao aveva parlato nella sua ultima intervista (ora raccolta nel film di Elisabetta Sgarbi, Quiproquo). La sua missione: ricominciare a pensare l’arte come pratica civile, politica, militante. Portarla al di fuori del «chiuso» dei musei. Concepirla non come mero esercizio decorativo, ma come territorio capace di accogliere inquietudini. Bellezza salvifica. Occasione di partecipazione diffusa. Strumento teso ad agire nel contesto urbano. Per favorire un radicale rinnovamento antropologico. Per dare a un intero popolo il sogno di un’esistenza migliore: «Una speranza contro ogni speranza».
Per cogliere il senso nascosto di questa filosofia, potremmo richiamarci a Heidegger, il quale scrive che la scultura è una «presa di possesso dello spazio». È «farsi-corpo di luoghi che (…) tengono raccolto intorno a sé un che di libero che accorda una dimora a tutte le cose e agli uomini un abitare in mezzo alle cose».
Questo meraviglioso sogno è stato costantemente alimentato da Corrao, fino alla sua tragica morte, un omicidio consumato nell’estate del 2011. Ma ora rischia di dissolversi. Gibellina crolla in mille pezzi. Per oggettivi problemi finanziari. Per incuria. Per ignoranza. Negli ultimi tre anni il contributo della Regione Sicilia — necessario al funzionamento della struttura, alla manutenzione delle opere, agli stipendi dei dipendenti del museo, alla programmazione del Festival delle Orestiadi, alle mostre, alle residenze per gli artisti, alla didattica e alla sede distaccata di Tunisi — è passato da 650 mila a 318 mila euro. Intanto, per protesta i dipendenti hanno chiuso per un breve periodo il museo e la biblioteca della Fondazione Orestiadi (con circa 20 mila volumi).
Di questo declino parliamo con la figlia di Corrao, Francesca, docente di Lingua e cultura araba alla Luiss di Roma e presidente della Fondazione Orestiadi. Nelle sue parole c’è il timore che tutto possa dissolversi nel nulla, ma c’è anche il desiderio di provare (ancora) a salvaguardare un ricchissimo archivio di creazioni e di affetti. È in atto una vera damnatio memoriae. Che il visitatore percepisce subito. «Ad esempio, dall’autostrada non è neanche indicata l’uscita per Gibellina. È un’impresa arrivare al Cretto di Burri. Esiste una strada statale interrotta perché dissestata. Oppure, bisogna arrivarci da Salemi. Fortunato chi ci riesce».
Davvero c’è poco di cui gioire. Alcune opere disseminate nelle strade di Gibellina sono diventate scure: perché aggredite da funghi. Altre sono state profanate dal tempo. Altre ancora — come una scultura di Nunzio — sono state invase da api. Altre, infine — come un’architettura di Venezia — sono state sporcate da graffiti. Molto seri i problemi conservativi. La maggior parte degli interventi necessiterebbe di manutenzione e di pulizia ordinaria. «Ma non ci sono le risorse per restaurarli», dice Corrao. Per non dire del Cretto di Burri, che è stato pulito solo in questi giorni, ma che cade a pezzi: in alcuni punti è sfondato dalle piante e mangiato dalla ruggine. «Il degrado è diffuso. Il sindaco, per salvare le 3.600 palme aggredite dai parassiti, ha sacrificato altre urgenze. I soldi non arrivano. Mi addolora dirlo. C’è troppa incuria. Chiedo aiuto».
La situazione è drammatica. Continua: «Mancano i soldi per pagare i fornitori dei servizi minimi. Dopo il 2011, abbiamo continuato a fare attività. Abbiamo portato il bilancio in attivo. Ma ora, senza mio padre, ci sentiamo meno protetti. Da sette mesi i dipendenti non percepiscono stipendi. Le giunte regionali precedenti hanno tagliato la dotazione della Fondazione, mentre hanno assegnato tre milioni di euro per finanziare mostre di artisti minori».
Un grido di dolore. Un (consueto) caso di male culturale? No, qualcosa di più e di diverso. Stiamo assistendo all’eutanasia di un’utopia. «È alto il rischio di fallimento di un sogno di rinascita». Dinanzi a questo rischio, solo indifferenza. «I politici — in Sicilia e in genere in Italia — appaiono lontani dalla cultura e dall’arte. Non ne colgono il valore etico e il potenziale economico. Non capiscono che Gibellina non è di Ludovico Corrao, ma appartiene a tutti. In pochi riconoscono la forza di un’iniziativa rivolta a modificare un’eredità antica in visione del futuro».
Nelle prossime settimane la giunta regionale siciliana si pronuncerà sul sostegno alla Fondazione Orestiadi. «Crocetta dice che ci difenderà. Per ora, abbiamo ricevuto promesse. Presto sapremo se dovremo morire o se ci salveranno. Eppure, resto fiduciosa. Sono ancora convinta che si possa ripartire da Gibellina per una nuova Sicilia. Era la lezione di mio padre: servirsi della cultura per determinare la crescita di una comunità». E, tuttavia, il rischio che Gibellina come opera d’arte totale venga smembrata è alto. «Se non avremo interventi di sostegno, il nostro patrimonio verrà preso dalle banche e sarà disperso. La nostra storia rischia di essere cancellata».
Che fare? Serve una mobilitazione ampia. Come hanno compreso alcuni artisti — da Isgrò a Pomodoro, da Paladino a Wilson — che, per «la Lettura», scrivono in queste pagine i paragrafi di un ideale manifesto «In difesa di Gibellina». L’auspicio è che le istituzioni pubbliche vengano affiancate da soggetti privati capaci di investire risorse per il rilancio di questa terra.
È dovere della Sicilia e dell’Italia tutta difendere il sogno bellissimo e impossibile di Ludovico Corrao, che aveva trovato la sua vetta nel Grande Cretto burriano. «Un’opera d’arte che sembra un’opera della natura», scrisse Cesare Brandi. Un immenso sudario steso su un’intera cittadina. Un lenzuolo funerario bianco di dodici ettari, con imponenti massi, attraversato da alti solchi, che custodisce sotto di sé le rovine del territorio. «Burri — affermò Corrao — capì la nostra esigenza: ricordare alle generazioni future la tragedia del terremoto, ma soprattutto la storia di una lenta, consumata vita di stenti, di miserie, di emarginazione, di partecipazione a guerre non volute, di mafie, di malattie».
È nostro dovere morale rispettare quel ricordo.
Vincenzo Trione