Evgeny Morozov, la Lettura (Corriere della Sera) 21/04/2013, 21 aprile 2013
SO CHI SEI. E IL PREZZO CAMBIA
Momentum, un’agenzia pubblicitaria spagnola, ha lanciato la scorsa estate una singolare campagna: ha installato 18 distributori «intelligenti» di bibite, che abbassavano il prezzo delle bevande fredde nelle giornate calde. Un drink acquistato a 23 gradi costava 2 euro, a 28 gradi costava solo 1 euro e 40 centesimi.
Non si pensi però che la brillante idea di creare «prezzi dinamici» guidati da un sensore sia la prova che la smart city possa ancora avere una dimensione umana. Anche se sembrava prendere in considerazione i bisogni umani, l’esperimento era pur sempre una trovata di marketing: quale impresa sarebbe così stupida da abbassare i prezzi delle bevande in una giornata calda? Una ditta che volesse fare affari installerebbe dei sensori per fare il contrario. E, a meno di abbandonarsi al vandalismo, i consumatori non potrebbero far molto per protestare: la macchina, a differenza di un venditore umano, non sarebbe sensibile alle proteste.
Su un punto, però, Momentum ha colto nel segno: la proliferazione di sensori a basso costo ha reso interessante l’adozione di prezzi dinamici — la possibilità, cioè, di modificare il prezzo in tempo reale, senza l’intervento di un operatore. E se alcuni sensori rilevano fattori ambientali, come la temperatura esterna, altri potrebbero cercare di sapere di più sugli acquirenti: sono giovani? sono eleganti? sono su Facebook?
Potrebbe essere ancora complicato dare risposta all’ultima domanda, ma non alle prime due. Nel 2011 Intel e Kraft si sono associate per lanciare i chioschi iSample, che usano un sensore ottico per determinare l’età e il sesso del cliente e scegliere i prodotti da proporgli. La macchina era stata inizialmente utilizzata per diffondere Temptations — un dessert a base di gelatina di frutta pubblicizzato come «la prima gelatina di frutta per adulti», tanto che quando si avvicinava un bambino, la macchina gli chiedeva di allontanarsi. In Giappone un distributore automatico simile si affida alla tecnologia del riconoscimento del viso per consigliare bevande a consumatori diversi: agli uomini di età inferiore ai cinquant’anni consiglia bibite al caffè, mentre alle donne sui vent’anni il tè.
Attualmente i sensori sono utilizzati soprattutto per automatizzare semplici decisioni di tipo binario — non vendere alcolici a chi dimostra di avere meno di diciotto anni! Ma non ci vorrà molto perché permettano interventi più elaborati: quando il nostro viso sarà associato al profilo di un social network, subentrerà tutta un’altra serie di manipolazioni. Si tratterà di ottenere sconti, certo — ma ci saranno anche situazioni in cui la macchina rileverà la nostra disponibilità a pagare di più rispetto al prezzo richiesto da un distributore più stupido, senza sensori. Se questo si verificherà — se la macchina sarà in grado di stabilire la nostra propensione al consumo di bevande analizzando il nostro profilo su un social network o interrogando un’applicazione sul nostro cellulare — potrebbe chiederci l’importo esatto che siamo disposti a pagare.
In teoria si dovrebbe applaudire: i sensori ci aiutano a raggiungere una maggior efficienza. Lo scorso gennaio, a un’importante conferenza del Dld (Digital Life Design), Max Levchin, ex amministratore delegato di Paypal e fortemente incline a investire in tecnologia, ha preso le parti di un mondo ossessionato dall’efficienza. Secondo Levchin, la proliferazione dei sensori e la portabilità della nostra identità renderanno il mondo digitale molto più efficiente del suo predecessore analogico.
«Il mondo delle cose reali è molto inefficiente: le risorse inutilizzate abbondano, e abbondano anche le aziende che cercano di razionalizzarne l’uso». Oggi, grazie alla «digitalizzazione dei dati analogici e alla gestione centralizzata delle liste di attesa», è sorta una generazione di start-up in grado di creare nuovi, fantastici livelli di efficienza, come la Uber — un’azienda che mette in contatto passeggeri e auto con autista — o Airbnb — un’altra popolare start-up che mette in contatto chi ha bisogno di un appartamento per un breve periodo con chi vuole affittare il suo.
Prendiamo Uber. In passato, quando avevamo bisogno di un taxi, venivamo trattati come tutti gli altri. Telefonavamo e venivamo messi in attesa, senza sapere a che punto della coda eravamo. Se ci innervosivamo e riagganciavamo, dovevamo ricominciare da capo. Con questo sistema «stupido», osserva Levchin, «anche se siamo disposti a pagare cento volte di più di tutti gli altri in attesa davanti a noi, non abbiamo modo di farlo sapere. I dati esistono solo in formato analogico, e si muovono solo a velocità analogica». Uber è diverso: i dati che ci riguardano arrivano in formato digitale, sappiamo esattamente quando le risorse saranno disponibili, quanto tempo dovremo aspettare, e così via. E potenzialmente, se siamo disposti a pagare più degli altri, potremmo ottenere un servizio diverso, migliore.
Levchin spinge questa logica all’estremo, immaginando «code a prezzo dinamico per prenotare un prete che ci confessi, o un terapista» e prevedendo che saremo in grado di affittare la potenza del nostro cervello per risolvere problemi, mentre dormiamo. Ma nell’esempio di Uber c’è qualcosa che non quadra: perché è giusto che un tizio amico su Facebook di Bill Gates sia trattato in modo diverso da chi su Facebook non è nemmeno presente?
La vera ragione del trattamento ugualitario offerto dagli «stupidi» taxi analogici non ha nulla a che fare con la mancanza di sensori adeguati: è il logico risultato della regolamentazione dei trasporti collettivi prevista dalla legislazione degli Stati di diritto. La non discriminazione è parte integrante di questo principio: per un viaggio va chiesta la stessa tariffa indipendentemente dal fatto che siamo neri, bianchi, omosessuali o ricchi sfondati.
Può darsi che ci siano buone ragioni per abbandonare questo principio. Ma il semplice fatto che ora abbiamo una migliore tecnologia per eliminare le inefficienze del sistema non è una di queste: l’inefficienza è il prezzo che abbiamo accettato di pagare per non essere discriminati. Paragonare il settore dei taxi — fortemente regolamentato — con le start-up poco regolamentate come Uber — e farlo basandosi solamente sul criterio dell’efficienza — significa già favorire Uber. Il settore dei taxi è stato costruito per essere inefficiente. Oppure prendiamo in considerazione Airbnb, che Max Levchin menziona. I vantaggi di Airbnb sono noti — propone molte abitazioni in più in un mercato che sarebbe altrimenti ristretto. Ma a quale prezzo? Permettere alla gente di trasformare il proprio appartamento in hotel potrebbe allentare lo spirito comunitario di un quartiere e forse si violerebbero anche le regole sul controllo degli affitti. (Per non parlare del fatto che né Airbnb né chi si presta a questo tipo di scambi di appartamenti sembra corrispondere le tasse a cui sono sottoposti gli hotel. Si è stimato che a San Francisco le tasse non versate per queste transazioni ammonterebbero, in un solo anno, a qualcosa come 1 milione e 800 mila dollari).
L’assegnazione di case ad affitto controllato sarà forse terribilmente inefficiente, ma questa inefficienza è voluta, non casuale: è pensata per privilegiare la dimensione sociale e politica della gestione degli alloggi rispetto a quella economica. In altre parole, dire che Airbnb contribuisce a migliorare l’efficienza non aiuta a decidere il destino degli affitti controllati. Se non ci piacciono, dobbiamo avversarli su un piano politico e sociale — non limitarci a sostenere che grazie agli smartphone e ai social network siamo in grado di creare un nuovo mercato, più efficiente nel mettere in collegamento chi cerca casa per un breve periodo con chi la offre.
L’aspetto più interessante — e inquietante — del ragionamento di Levchin è che tutte le inefficienze del mondo Bs («Before sensors», prima dei sensori) sono presentate come la naturale conseguenza dell’ambiente tecnologico «stupido», e non del deliberato desiderio di promuovere valori come la giustizia, l’equità, la coesione comunitaria.
Nel frattempo, non lamentiamoci se il distributore automatico intelligente decide che non siamo la persona giusta per bere l’ultima bottiglietta di Coca-Cola rimasta: dietro l’angolo potrebbe esserci un Bill Gates assetato.
Evgeny Morozov
(Traduzione di Maria Sepa)