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 2013  aprile 21 Domenica calendario

IL NUOVO MERCANTILISMO E LA LEZIONE DI WEIMAR

Siamo appena entrati nel settimo anno dello smottamento iniziato nel 2007 dai mutui subprime in America. Durante il settimo anno dall’inizio della Grande depressione, nel 1935, il Pil italiano stava tornando al livello di prima del crash del ’29. Il nuovo Oxford Handbook, il manuale di storia economica del Paese curato da Gianni Toniolo (su iniziativa della Banca d’Italia), rivela che quella fu una fase più difficile di quanto non si creda. Eppure oggi, a sette anni dall’inizio di questa crisi, siamo più indietro di allora. Il Pil dell’Italia non è neanche vicino al livello di prima dello strappo sui mutui subprime: viaggia otto punti sotto.
Al dramma economico italiano degli anni Trenta contribuì certamente l’autarchia fascista, il mito dell’isolamento e dell’autosufficienza dal resto del mondo. Ma sul piano internazionale pesò anche di più il rifiuto dei Paesi creditori di tenere aperti i propri mercati ai beni prodotti dalle nazioni debitrici. Incapaci di esportare e generare le risorse per saldare i propri debiti, queste ultime reagirono stringendo la cinghia dell’austerità fino al punto di rottura.

Oggi ovviamente tutto è diverso. Abbiamo fatto tesoro degli errori già vissuti e nessuno è anche solo lontanamente tentato da qualcosa di simile allo Smoot-Hawley Tariff Act, la rete di dazi con cui gli Stati Uniti disabilitarono il sistema globale degli scambi nel 1930. Stavolta no. Germania, Olanda o Finlandia restano fedeli al mercato europeo dei beni e (in parte) dei servizi, anche se i loro regolatori ormai impediscono sistematicamente i flussi di capitale nell’area.
Eppure è difficile non avvertire certi echi dal passato. Al momento del Grande crash, gli Stati Uniti e la Francia stavano accumulando oro allo stesso ritmo al quale la Repubblica di Weimar stava accumulando solo la disoccupazione: quegli afflussi di metallo erano il riflesso degli avanzi commerciali all’epoca del gold standard, quando i pagamenti legati ai surplus commerciali con l’estero venivano regolati con trasferimenti di lingotti via nave o via treno. Oggi l’oro ha perso quel ruolo e la moneta si basa esclusivamente sulla fiducia. Ma, in modo non diverso da allora, il Nord Europa e l’area di lingua tedesca stanno accumulando attivi da record negli scambi con l’estero, mentre certi Paesi del Sud accumulano livelli di disoccupazione degni della tarda Repubblica di Weimar. Per loro, questa è una recessione più profonda di quella di ottant’anni fa. Intanto ai loro confini nord una quantità colossale di risparmio e di potenziale domanda di beni di consumo e d’investimento resta inerte. Non spesa.
Come può accadere qualcosa del genere, oltre mezzo secolo dopo il trattato che creò la Comunità europea? Kemal Dervis del centro studi Brookings stima che il surplus cumulato su beni, servizi, interessi e dividendi di Paesi scandinavi, Olanda, Austria, Svizzera e Germania sia ormai a 500 miliardi di dollari. È una somma che supera il surplus della Cina ai suoi estremi mercantilisti di metà anni Duemila, quando il G7 (Germania inclusa) accusava regolarmente i leader di Pechino di alimentare gli squilibri globali che avrebbero poi portato a questa crisi.
C’è anche un aspetto più sorprendente. In questa fase, le economie dell’area dell’euro tendono quasi tutte verso il riequilibrio nei saldi con l’estero. C’è chi viene dal segno più, come l’Olanda, e chi riemerge dal segno meno, come l’Italia, la Spagna o la Grecia. Ma quasi tutte ormai procedono verso lo zero, la soglia del riequilibrio. Solo due Paesi fanno eccezione, perché continuano ad allontanarsi dal pareggio negli scambi commerciali e finanziari con l’estero. La coppia divergente è composta da Francia e Germania, le due economie più grandi. Di recente la Germania si è spinta sempre più in là in acque inesplorate: dall’inizio del 2012 il suo attivo con l’estero è salito dal 6,2 al 7% del Pil (secondo i dati del Fmi). È un’evoluzione ancora più straordinaria sullo sfondo della depressione sud-europea, della recessione europea e di un’economia nazionale vicina alla crescita zero. Proprio questa frenata interna tedesca, il calo dell’indebitamento pubblico e privato e tassi d’interesse bassissimi anche a lungo termine consiglierebbero a Berlino di allentare un po’ la parsimonia e sostenere la domanda.
C’è molto che la Germania potrebbe fare senza danneggiare la forza del suo export: potrebbe rinviare il pareggio di bilancio di qualche anno; potrebbe aprire un po’ il settore dei servizi, in modo che anche i fornitori esteri trovino più spazio e le famiglie spendano qualcosa di più; potrebbe cercare di ridurre i tassi di povertà, molto alti per un Paese così ricco: vorrà pur dire qualcosa se di recente il Belgio ha presentato ricorso alla Commissione europea contro la Germania per social dumping sul costo del lavoro, quasi che la Sassonia fosse una regione della Cina. Ma no. Una visione distorta di che cosa sia la competitività spinge la classe politica tedesca a considerare i crescenti surplus con l’estero come un bene non negoziabile, o una prova di virtù. Poco importano le conseguenze all’estero.

Il secondo Paese che diverge dallo zero è la Francia. Ma lo fa nella direzione opposta, verso il rosso. Nell’ultimo anno il suo deficit nelle partite correnti con l’estero è salito dal 2,4 al 3,5% del Pil, mentre quello dei Paesi del Sud diminuiva a causa del crollo dei consumi e delle importazioni. La Francia oggi va verso una contrazione dell’occupazione e del reddito e si avvicina al punto in cui dovrà cambiare rotta per non rischiare problemi più seri.
Questo è ciò che ricorda più da vicino gli anni Trenta. Come allora gli Stati Uniti, oggi la Germania non trova in sé la volontà di stabilizzare il sistema; come allora la Gran Bretagna, oggi la Francia non trova in sé la forza di farlo. E la divergenza dallo zero delle due grandi economie dell’area contribuisce a rendere ogni giorno più intrattabile la crisi europea.
Ecco perché discutere di continuo sulla «giusta» dose di austerità in Europa non serve a molto. Il lamento dei leader del Sud contro Angela Merkel, ripetuto ogni volta che aumentano le tasse, suona sempre più vuoto e inutile. Non è colpa della Germania se l’Italia e la Spagna hanno dovuto affrontare manovre di bilancio così pesanti l’anno scorso. Qualunque Paese in cui il costo medio degli interessi viaggia talmente sopra al tasso di crescita non ha altra scelta che stringere la cinghia: il suo debito sta aumentando in pilota automatico rispetto alla capacità dell’economia di sostenerlo. Basta rivedere il fotogramma dell’Italia del novembre 2011. L’economia in recessione, il Tesoro costretto a pagare interessi dell’8% su tutte le scadenze dei suoi titoli (anche a sei mesi), e un calendario di rifinanziamenti del debito per 440 miliardi di euro sui dodici mesi seguenti. Quando un sistema si riduce in questo stato, l’austerità non è più una scelta. È un gesto di sopravvivenza, qualunque cosa ne pensi Angela Merkel o chiunque altro.
Così i leader europei in questi anni sono stati vittime e protagonisti di un fallimento collettivo, in primo luogo intellettuale. Non c’è stato un solo momento in cui abbiano inquadrato il terremoto sotto i loro occhi nei suoi termini reali. I leader del Sud hanno sprecato tempo ed energie nel chiedere ad Angela Merkel che fosse loro prescritta una medicina fiscale meno pesante. E Merkel, con i suoi alleati, ha investito altrettanto del proprio capitale politico per resistere. Alla fine si ritrovano tutti allo stesso punto, solo un po’ più a fondo nella recessione. L’ultimo Consiglio europeo è stato l’ennesima replica dello stessa pièce, recitata in gran parte per il pubblico a casa.

Nessuno nei governi invece sembra guardare allo spazio che esiste per un accordo più ampio, una volta che le elezioni tedesche e lo stallo politico in Italia saranno alle spalle. Sarebbe un gesto minimo di responsabilità. I Paesi del Sud devono accettare l’idea che, per poter competere in questo secolo, le loro istituzioni economiche vanno trasformate molto più in profondità: è qualcosa che molti rifiutano ancora di ammettere a se stessi; è lo state of denial, la rimozione psicologica, di cui parla Mario Draghi.
La Germania e i suoi alleati, dall’altra parte, devono capire che mantenere questi colossali surplus verso l’estero, in un’Europa in recessione, significa danneggiare la moneta unica e se stessi. È ora che i creditori mettano i loro risparmi non spesi al lavoro per la crescita e l’occupazione. I leader della Francia, dell’Italia e della Spagna non hanno mai sollevato questo problema, ma non hanno più molto tempo per farlo. Senza un accordo per la crescita e per le riforme, il tentativo del Sud Europa di ridurre i debiti può produrre una depressione politicamente destabilizzante. Mark Twain, si sa, scrisse che la storia non si ripete mai. Ma subito precisò che, qualche volta, «fa la rima».
Federico Fubini