Michele Salvati, Corriere della Sera 21/04/2013, 21 aprile 2013
IL RITORNO DEL PADRE E LA POLITICA «BAMBINA»
Da qualche settimana era scomparso dalla scena. Cancellato dai partiti, dai giornali, dalle tv pubbliche e private. Niente più titoli per il vecchio presidente, mentre montava l’attenzione intorno al nuovo, mentre s’intrecciavano proiezioni e spartizioni sulla scelta per il Colle.
Noi italiani siamo fatti così: dimentichiamo presto, tiriamo avanti senza conservare alcuna memoria del passato. Come bambini, come se i nostri giorni stiano sempre lì lì per cominciare. Poi i bambini si sono trasformati in una classe scalmanata, che ha cominciato a demolire perfino i muri della scuola. E hanno avuto paura, gli uni degli altri, ciascuno di se stesso. Si sono riscoperti orfani, quando a ogni bambino serve un babbo. Sicché hanno chiesto soccorso al vecchio padre, che già pregustava il buen retiro. E che in precedenza aveva già dichiarato in mille lingue d’essere indisponibile alla propria rielezione. Stavolta ha detto sì, sebbene a malincuore. Lo ha fatto per non sottrarsi alle sue responsabilità davanti a un Parlamento irresponsabile. Ma al contempo ha chiesto ai partiti d’assumersi le loro, d’offrire un governo a quest’Italia sgovernata.
Magari qualche politologo, digiuno di diritto ma esperto in oroscopi falliti, ora dirà che siamo piombati in una Repubblica presidenziale, anzi nel regno di Napolitano I.
Non è così, nessuna norma costituzionale viene trasgredita da questa rielezione. Anche se è la prima volta, fin qui non era mai successo. In passato sarebbe stato inopportuno, perché la democrazia si nutre del ricambio di classi dirigenti, perché nessuna carica dovrebbe prolungarsi oltre misura. Però c’è un tempo della regola, e c’è un tempo per l’eccezione. Che a sua volta si giustifica quando mira a ristabilire il primato della regola, quando insomma le regole del gioco vengano infrante dai giocatori in campo.
Morale: la nostra Carta sarà pure ingiallita, ma è sempre in grado d’aprire qualche pagina fresca di stampa. Nel 1947 i costituenti saggiamente non proibirono la rielezione del capo dello Stato, come fecero ad esempio rispetto ai membri del Consiglio superiore della magistratura (art. 104). Lasciarono schiusa una finestra per tempi eccezionali, e quei tempi, ahimè, li stiamo attraversando adesso. D’altronde nella Costituzione italiana neppure c’è un niet alle dimissioni prima di concludere il mandato. Vige una soglia massima (7 anni), non minima. E vige un principio di libertà, perché nessuna carica può diventare una galera. Tanto che Cossiga, a suo tempo, pensò di dimettersi da senatore a vita. Napolitano lo farà quando verrà il momento, quando la nostra navicella navigherà in acque più sicure.
Sì, è un buon viatico questa rielezione. Può accompagnare il bambino che abita dentro la politica, e farlo crescere, e trasformarlo in un adulto. Può educarci all’unità, mentre viviamo da separati in casa. Può allevare una stagione di riforme, di cui abbiamo più che mai bisogno. E in ultimo può indicarci un esempio, un modello da emulare: per ottenere istituzioni disinteressate, le cariche si danno a chi non le reclama.
Michele Ainis