Antonella Rampino, La Stampa 21/4/2013, 21 aprile 2013
NAPOLITANO E LE SFIDE DELLA TERZA REPUBBLICA
I suoi duemilacinquecento giorni al Colle sono stati l’esercizio più politico del magistero politico per eccellenza, la presidenza della Repubblica. E il paradosso capace a quanto pare di riservar sorprese anche nelle empiree sfere istituzionali oltre che nella vita di ogni umano è che, adesso, Giorgio Napolitano si troverà a dover sciogliere in prima persona quei nodi politici che aveva imperiosamente, pertinacemente, lungamente e purtroppo inutilmente indicato ai partiti. E il destino riannoda i sentieri, il Presidente che ci confidava solo una paio di mesi fa «questa mia tristissima fine di settennato», e aveva già fatto i pacchi, riempito scatoloni, tanto che non c’è neppure più una sua stilografica sulla scrivania presidenziale, deve riaprire adesso di propria mano il dossier più corposo: indurre le forze politiche a mutare la legge elettorale, a ridurre il numero dei parlamentari, a sdoppiare il bicameralismo perfetto rendendo il Senato come un’assemblea delle Regioni. Predisponendosi forse a uscire dal Quirinale come De Gaulle dall’Eliseo, dando il via a una nuova Repubblica che eleggerà direttamente l’inquilino al Colle. E diventerà dunque densamente politica anche l’eccezionalità della sua rielezione, indotta dalla necessità di riempire il vuoto da vertigine al quale la politica è ormai giunta.
Non ci possono essere due Papi, in quel Quirinale che fu casa del Trono di San Pietro. Ma, da oggi, ci sarà per la prima volta un secondo settennato, e presto un governo politico davvero «del presidente». Mai avrebbe immaginato questo Giorgio Napolitano, nell’emozione di quel giorno di maggio 2006 a Palazzo Giustiniani nel quale, elevato al rango di senatore a vita da Carlo Azeglio Ciampi, occupava la stanza cosiddetta «delle Metamorfosi» e dove si compì la sua trasfigurazione in Capo dello Stato, eletto al quarto scrutinio e nella piena malmostosità di Berlusconi e di tutto il centrodestra. Il suo primo discorso, davanti al Parlamento, è l’ouverture del settennato: contiene tutti i temi che verranno poi metodicamente sviluppati. Il suo primo gesto, l’omaggio ad Altiero Spinelli a Ventotene, è allo stesso modo l’indicazione della stella polare in politica estera, l’Europa e la necessaria progressiva integrazione. Il primo appello, a pochi giorni dall’elezione, è proprio per le riforme, nei giorni in cui gli italiani bocciano via referendum la scombiccherata Carta riscritta dai «saggi di Lorenzago»: è, anche, il primo pubblico invito a «larghe intese», a «larghe maggioranze». E l’ultimo, di una serie di molti, sarà solo di un paio di settimane fa, indicando la via della «non sfiducia» che tenne a battesimo l’«entente cordiale» tra Moro e Berlinguer nel ’76, modello per la coppia dell’incomunicabilità perfetta, Bersani&Berlusconi.
È vero che il più politico dei Presidenti non ha mai mandato nemmeno un messaggio alle Camere, che ha esercitato un ferreo controllo preventivo di conformità di ogni minimo intervento legislativo con la Carta comune, bloccando o limando per quella via - e solo per quella via - i più svariati provvedimenti, dallo scudo fiscale al fine vita sul caso Englaro, passando per il cosiddetto «lodo Alfano», e che questi sono stati i punti in cui Berlusconi e il centrodestra hanno squadernato la rabbia verso il Quirinale. Se lo stesso tipo di «controllo» è stato rigorosamente esercitato anche quando a Palazzo Chigi c’era Romano Prodi - al quale nel 2008 viene chiesto di verificare in Parlamento la mancanza di fiducia, prima di sciogliere le Camere nel 2008 non senza aver conferito un mandato esplorativo al presidente del Senato, Franco Marini, che poi riterrà invece di non testare la possibilità di un ulteriore governo dell’Ulivo -, molto intensa diventa la conflittualità con il governo del centrodestra.
Il presidente di tutti tende più volte la mano a Berlusconi, pubblicamente non deflette e spande moral suasion al fine di svelenire il clima nel rapporto tra maggioranza e opposizione. E questo, nonostante gli insulti di Berlusconi quando la Corte Costituzionale boccia il Lodo Alfano, quando Napolitano blocca il decreto - materia non affrontabile con quello strumento - con il quale il governo vorrebbe intromettersi d’imperio nel caso privato di Eluana Englaro. Fino al ruolo chiave del 2011, quando l’esplosione della crisi finanziaria rende macroscopica l’inanità di Berlusconi e Tremonti -che la crisi addirittura pubblicamente la negano, e con l’Italia destinataria della famosa lettera Bce-Banca d’Italia, e a un passo dal commissariamento del Fondo Monetario Internazionale - e renderebbe indispensabile un passaggio di mano a Palazzo Chigi. Berlusconi resiste, Merkel e Obama premono personalmente su Giorgio Napolitano - unico interlocutore affidabile, come da quel momento in poi verrà definito dalle principali Cancellerie occidentali - e con un capolavoro tattico e strategico Giorgio Napolitano convince, l’11 novembre, Berlusconi a dare le dimissioni. Ci riesce anche perché il Cavaliere - che spesso ha potuto liberamente sfogarsi con il Capo dello Stato, per il quale è come diventato uno specchio nel quale riflettere un sé migliore - di Napolitano si fida, pur avendolo pubblicamente attaccato più volte («è un comunista», «è lui che controlla la Corte Costituzionale che blocca tutto» etc. etc.). Si fida perché, in un ordinamento nel quale il capo dello Stato non lavora certo contro il premier, Napolitano dà il tempo a Berlusconi di riorganizzarsi, quando Fini e i suoi si sfilano dalla maggioranza: un mese di tempo, nel dicembre 2010. Ma in quella drammatica sera del novembre 2011, col premier che nello Studio alla Vetrata gridava «solo io posso salvare l’Italia», «solo di me l’Europa si fida», e Napolitano che intanto vacillava sulla sedia, alla fine si sciolse l’impasse. E vide la luce il primo governo Monti, il governo del presidente, passando per il colpo di genio di investire il professore bocconiano di tutta la propria autorità politica, attraverso il laticlavio di senatore a vita.
La storia poi è nota, soprattutto quella della gelida delusione - che ancora morde Napolitano - quando Monti decise la «salita in campo» che toglieva all’Italia una riserva di credibilità, e autorevolezza a Monti stesso, e il tutto disattendendo la presidenziale moral suasion, esercitata sia in pubblico sia in privato. Un crollo di stima giunto alla massima potenza quando, inopinatamente e in modo quasi autolesionistico, il premier in carica s’è impuntato per dare le dimissioni, di fronte ad Angelino Alfano che - a parole - gli toglieva la fiducia in Aula, disconoscendo tutti i provvedimenti sin lì votati dal Pdl.
Il resto è storia politica di questi ultimi cinquanta giorni, con il mandato dimezzato conferito a Pierluigi Bersani, non completo vincitore alle elezioni, al quale è stato chiesto di verificare politicamente la fiducia a un suo eventuale governo, senza la possibilità che la verifica si compisse in Parlamento. Una leadership debole, che è stata indebolita, precipitando nel cupio dissolvi di un Pd che impallina il suo fondatore, Romano Prodi, mentre lo candida a capo dello Stato.
Ma con il Paese ancora a rischio, la storia delle ultime settimane ci consegna l’autorevolezza con la quale Giorgio Napolitano ha ancora fatto scudo all’Italia. Usando il lascito di Ciampi (che nel ’99 chiese per iscritto al presidente del Consiglio Giuliano Amato il via libera a rappresentare l’unità nazionale anche nei rapporti internazionali), Napolitano ha portato l’Italia nel mondo. Viaggi nei quali ha tessuto, costruendo la candidatura di Mario Draghi alla Bce come la prossima di Franco Frattini alla Nato, tenendo altissima l’immagine dell’Italia, mantenendo forti e specialissimi rapporti soprattutto con Obama e Merkel.
Lunghi viaggi anche in Italia, portando ovunque la bandiera del Centocinquantenario dell’Unità d’Italia, amato dagli italiani al punto da far registrare il picco della popolarità del presidente. Pur non avendo mai potuto avere accanto Berlusconi in un 25 aprile, Napolitano riuscì a sollecitarne qualche sensibilità quando la celebrazione si tenne nella terremotata Onna.
A sorreggerlo nell’esercizio presidenziale, Napolitano ha avuto il proprio carattere, l’abitudine coltivata sin da giovanissimo nell’esame minuzioso di ogni problema: per capire fino a che punto nulla sia sfuggito alla cruna quirinalizia basterebbe guardare i comunicati con i quali in una riga si comunica quante persone sono state ricevute al Colle ogni giorno, quante lettere di privati cittadini - a cui viene data risposta - si sono rivolti al «re» della Repubblica Italiana per sollecitare attenzione. Da questo punto di vista, il raddoppio del mandato, che è l’eccezionalità nella storia repubblicana, raddoppierà anche l’efficacia e il potere dispiegato affrontando gli infiniti dossier dell’infinita crisi italiana. Napolitano può ancora sognare un’Italia che non sia più un’anomalia. E, anzi, provare a realizzarla.