Anna Zafestova, La Stampa 20/4/2013, 20 aprile 2013
CECENIA, DOVE LA GUERRIGLIA E’ UN LAVORO
Giovedì, mentre la polizia di Boston stava stringendo il cerchio intorno ai fratelli Tsarnaev, nel villaggio inguscio di Arshty è entrata una colonna di blindati con a bordo 300 uomini armati del ministero dell’Interno ceceno. Il pretesto formale per lo sconfinamento era una «operazione speciale» per catturare il leader separatista Umarov, una delle «primule rosse» della guerriglia che da anni non si riescono a scovare in un territorio piccolissimo, ma l’obiettivo vero sembrava un altro. Con i militari erano arrivati deputati e funzionari ceceni, e «comparse» che hanno organizzato un comizio a favore del passaggio di Arshty sotto la giurisdizione di Grozny. È intervenuta la polizia inguscia, respinta con perdite (sei feriti). Secondo fonti locali, dietro l’operazione c’è Adam Delimkhanov, deputato della Duma, miliardario, amico e delfino del presidente ceceno Ramzan Kadyrov, noto anche per aver figurato nella lista dei ricercati dell’Interpol per l’omicidio a Dubai, nel 2009, di Sulim Yamadaev, ex guerrigliero passato con i russi. Kadyrov non ha commentato: ieri era impegnato nella preghiera del venerdì, e su Instagram – la sua nuova passione – ha postato foto della moschea di Grozny, la più grande e lussuosa d’Europa.
Questa è una giornata normale in Cecenia, un bollettino quotidiano di rapimenti, omicidi, imboscate, scontri, retate, sequestri, con guerriglieri, ufficiali, banditi, politici, islamisti, miliardari – spesso le stesse persone – che intrecciano ideologie, business, vendette familiari e guerre di potere in una spirale di violenza senza fine. La guerra con il Cremlino, come giustamente insiste Vladimir Putin, è conclusa: al suo posto è subentrata una guerra endemica, di tutti contro tutti, attività principale della piccola repubblica.
Da quando nel 1991 Dzhokhar Dudaev, generale dell’Armata Rossa, proclamò l’indipendenza dalla Russia (e non è un caso probabilmente che uno dei terroristi porti il suo nome), in Cecenia il lavoro più diffuso e facile da trovare è maneggiare un kalashnikov. Dal 1994 al 1996, per difendersi dai carri armati e dalle bombe di Boris Eltsin, poi dal 1999 contro i carri armati e le bombe di Putin. In Cecenia è cresciuta una generazione che non è andata a scuola, non ha vissuto in una casa con luce, acqua e riscaldamento, e non c’è famiglia che non abbia avuto lutti, in una terra dove la vendetta viene ancora praticata come dovere.
Un popolo di fieri guerrieri che avevano tenuto testa allo zar per anni, montanari con codici di lealtà tribali che hanno reso così temibile la mafia cecena, e dove oggi i giovani ceceni ricorrono spesso all’opzione di «andare nella foresta», l’eufemismo per l’arruolamento nella guerriglia. Spesso unica alternativa valida all’altra carriera disponibile, entrare nel clan dei «kadyrovzy», i miliziani del presidente ex separatista che ha risolto per Mosca il problema della Cecenia instaurando un regime che reprime i concorrenti (politici o economici) a colpi di pallottole e sequestri. Dietro alla facciata delle moschee e dei grattacieli costruiti con i soldi di Mosca regnano la corruzione e la disoccupazione, e l’islamismo diventa una bandiera a portata di mano contro miseria e ingiustizia. Gli imam incendiari hanno sostituito il mito nazionalista, e il culto del «martire» suicida è arrivato insieme ai soldi dei fondamentalisti del Golfo, e ai reclutatori qaedisti che hanno esportato i ceceni in Afghanistan, in Iraq, in Libia.
L’opzione di emigrare non è molto praticabile: da più di dieci anni la tv martella i russi con notizie su crimini commessi da «persone di etnia caucasica» e sull’incubo del terrorismo ceceno, e trovare lavoro, ottenere la residenza, il passaporto, studiare, è difficile, mentre la polizia pesca tra i passanti infallibilmente le facce scure degli immigrati (formalmente cittadini russi) per estorcere denaro e maltrattarli.
Una sorta di apartheid che riproduce in forma più moderna quello che i ceceni avevano già subito sotto Stalin, che nel 1944 li caricò tutti – bambini e vecchi compresi – su treni che li hanno deportati in Asia Centrale come potenziali collaborazionisti dei nazisti. Il legame dei fratelli Tsarniev con il Kazakistan e il Kyrghyzistan probabilmente risale a quell’epoca. Kadyrov dice che sono diventati terroristi «per colpa dell’educazione americana». Ma forse le radici del male sono ancora da cercare nel Caucaso martoriato.