Aldo Cazzullo, Corriere della Sera 20/04/2013, 20 aprile 2013
MORTO ANGELO ROVATI AMICO E CONSIGLIERE DEL PADRE DELL’ULIVO
Chi conosce Romano Prodi sa che stanotte ha sofferto più per la perdita di Angelo Rovati che del Quirinale. Perché Rovati era forse il più grande tra i consiglieri e gli amici del Professore, e non solo perché era un metro e 94 e quando giocava a basket da ala pivot del Camillino Eldorado — cioè la Fortitudo Bologna — lo chiamavano il gigante buono («buono, non fesso» sorrideva lui spalancando i grandi occhi chiari).
Di sé diceva: «Io non sono un politico e neppure un tecnico sofisticato; sono un naïf. Faccio parte di un giro di amici, quasi un gruppo di goliardi, che sta cercando di dare una mano al più in gamba di noi». In realtà per Prodi Angelo Rovati era molto di più: l’uomo che gli dava il collegamento con il mondo degli affari, senza cadere nelle tentazioni o nelle trappole che hanno compromesso quasi tutti i fiduciari dei leader politici italiani; che gli faceva fare pace con Romiti e amicizia con Casaleggio; che limava il carattere all’apparenza bonario, in realtà spigoloso, del Professore. Talora magari combinava qualche pasticcio, tipo quando trapelò il «piano Rovati» sullo scorporo della rete fissa da Telecom; ma era sempre pronto a caricarsi ogni torto sulle sue larghe spalle, anche se magari aveva ragione.
Quasi sempre allegro, avvolgente, cortese, uomo di accattivante fisicità, sintetizzava così la sua filosofia: «La gente ha capito prima dei moralisti che politica e finanziamenti non sono un binomio impronunciabile, ma necessario. C’è un tabù da superare. La sinistra non è incompatibile con il denaro; solo, deve spenderlo bene, con rispetto, avendo sempre presente il bene comune, non quello dei singoli. Purtroppo senza denaro la politica non si fa: valeva prima di Berlusconi, a maggior ragione vale ora». Era uno dei «politici per caso» del gruppo bolognese, che possono commettere ingenuità però magari riescono a vedere cose (dalle primarie alla lista dell’Ulivo) che occhi avvezzi a ogni sottigliezza non vedono. «Romano — raccontava Rovati — l’ho conosciuto nel ’74 attraverso mia moglie Gianna, che non c’è più. Era sua allieva, come Flavia Prodi. Erano amiche, Gianna si è laureata quando Flavia era matricola». A Bologna l’aveva portato il basket. Il Sessantotto Rovati l’ha fatto sotto canestro e nel movimento giovanile Dc — «ero moroteo, poi sono entrato nella sinistra» —. Dopo lo scudetto con l’Oransoda Cantù, la nazionale con Recalcati, Vianello, Lombardi (Marzorati e Meneghin non c’erano ancora). Chiuse la carriera nel Forlì, e qualche anno dopo se lo comprò. Da presidente della Lega basket abolì le retrocessioni, propose il campionato europeo e trovò uno sponsor: Omnitel. Gli altri presidenti speravano di incassare di più e rifiutarono, lui si dimise: «La cuccagna è finita» profetizzò. Da allora il basket italiano è entrato in crisi.
Il legame con Prodi invece è continuato. «I suoi figli, Giorgio e Antonio, giocavano a basket. Avevamo amici comuni, come Giancarlo Tesini, ministro dc dei Trasporti. E poi ho contribuito a far nascere l’amicizia tra Romano e Raul Gardini. Stavano bene insieme perché Raul era un personaggio eccezionale, generoso, simpatico. Un innovatore: la sua disgrazia è cominciata quando ha avuto l’idea di trasformare le eccedenze agricole in benzina verde; si è attirato così la malevolenza delle sette sorelle del petrolio». La sua lunga storia d’amore con Chiara Boni ebbe l’apogeo nelle nozze in Campidoglio, con Prodi come testimone e Veltroni a officiare. Appassionato dell’America dove accompagnò il Professore da Clinton e dall’ex collega cestista Bill Bradley, imprenditore nel ramo catering, Rovati querelò un concorrente che lo accusava di vincere appalti con l’appoggio di Prodi. «Mai fatto un affare grazie a lui. La sua cifra è la trasparenza».
Vinte di un soffio le elezioni del 2006, continuò a stare accanto al suo amico a Palazzo Chigi. Più che dipanare i nodi degli assetti societari del capitalismo italiano, il suo obiettivo dichiarato era la costruzione del Partito democratico. «Il Pd è il nostro destino comune — diceva, prima ancora che nascesse —. Penso a qualcosa di completamente nuovo, non al collage delle ideologie passate. Apparati e partiti per ora resistono. Magari accadrà tra qualche anno; però accadrà».
Nei sette anni di lotta contro la malattia era diventato amico di tutti in ospedale, dal professor Ermanno Leo, che lo curava, agli infermieri extracomunitari. Ieri mattina si era rianimato alla notizia della candidatura Prodi, avrebbe voluto partire subito per Roma. Per buona sorte non ha saputo del disastroso epilogo. Questo partito non meritava un uomo così.
Aldo Cazzullo