Maria Teresa Meli, Corriere della Sera 21/4/2013, 21 aprile 2013
ROMA —
La chiamano già «Rifondazione democratica». È il nuovo corso del Pd che si è liberato dei «padri», cioè di D’Alema, Veltroni e Bersani. Alla guida di questo processo ci sarà — sembra quasi superfluo dirlo — Matteo Renzi.
Il sindaco rottamatore ieri è rimasto nella sua Firenze, ma ha seguito passo dopo passo quello che succedeva a Montecitorio. E ai fedelissimi ha spiegato: «Molti sono stati colpiti e affondati, io no. Ieri in questo partito c’erano Bersani e Bindi, oggi non ci sono più: il Pd può finalmente cambiare. Ora dovrò pormi il problema del congresso, dovrò decidere se candidarmi alla segreteria, è vero, ma andiamo avanti un passo per volta. Intanto abbiamo conquistato la possibilità di fare cose nuove. E poi vedremo quello che succederà in futuro: magari dovrò confrontarmi alle primarie con quello del catoblepismo». E quest’ultima parola è affogata in una risata.
Già, perché Fabrizio Barca ha sbagliato tempi e modi della sua uscita a favore di Rodotà, giocandosi le simpatie dei Giovani turchi. A immaginare con lui un nuovo partito che si fondi con Sel sono rimasti Gianni Cuperlo e il governatore della Toscana Enrico Rossi. Mentre Laura Puppato ha lasciato il Pd per veleggiare verso Nichi Vendola. Quel che resta del Partito democratico starà con Renzi. Il sindaco è su di giri: non lo preoccupa nemmeno il fatto che potrebbe nascere un nuovo governo, facendo slittare i tempi delle elezioni e, quindi, della sua candidatura: «Aspetto, ho tutto il tempo che voglio». Anche perché è sensazione diffusa che questo esecutivo, se mai vedrà la luce, non godrà di vita lunga: un annetto al massimo.
Quel che sta accadendo nel Pd è un rinnovamento generazionale e non solo. A Roma Matteo Orfini delinea già le possibili novità. Che partono da subito: «Intanto alle consultazioni non ci possono andare Enrico Letta, Speranza e Zanda perché non mi rappresentano. Qualsiasi impegno che loro possono prendere non mi riguarda. Non si può fare finta di non vedere quello che è successo. Perciò la delegazione che andrà al Quirinale dovrà rispettare tutti e non solo le vecchie correnti: bersaniani, lettiani e franceschiniani. Non sono più quei tempi e infatti deve cessare anche la conventio ad excludendum nei confronti di Matteo Renzi. Il sindaco rappresenta il 40 per cento di questo partito».
Insomma, i Giovani turchi vogliono anche loro la Rifondazione democratica, anzi puntano ad arrivare all’obiettivo il prima possibile. E c’è un aspetto della rivoluzione operata dentro il Pd che può incidere nel prossimo futuro. Basta ascoltare di nuovo Orfini: «Non è affatto scontato che ci sia il nostro "sì" al governo e non è affatto detto che un esecutivo si possa mettere in piedi solo con il Pdl. Vogliamo discutere pure di questo». Insomma, tutto viene rimesso in gioco in questo Pd che corre verso Renzi. E non c’è Barca che tenga. Tanto più dopo l’appoggio a Rodotà. «Una roba inaccettabile», sibila Stefano Fassina. Del resto, i Giovani turchi hanno ormai rotto il legame che li teneva a Sel: «Sono come Bertinotti». Ora il loro interlocutore politico si chiama Renzi. Sarà con il sindaco che dovranno trovare l’accordo e sarà con lui che dovranno lavorare. I vecchi equilibri si sono spezzati per sempre. Cercano di farlo intendere anche al povero Roberto Speranza, capogruppo da troppo poco tempo per comprendere quello che sta accadendo.
Adesso dovrà mettersi in moto la macchina congressuale, perché le assise nazionali devono tenersi al più presto. C’è chi le vorrebbe fare già a giugno, senza aspettare ottobre. Ma i tempi dipenderanno inevitabilmente dalle vicende politiche: se non si riuscisse a fare un governo e si dovesse andare alle elezioni, allora il congresso potrebbe slittare.
Ma i «padri» non hanno veramente troppa fretta di essere sloggiati dalle loro rendite di posizione. Perciò si stanno cercando di riorganizzare e di resistere al ricambio generazionale. E guardano a Guglielmo Epifani come al possibile segretario del dopo Bersani. L’ex leader della Cgil è una figura rassicurante, è l’unico del Pd che in questi giorni è riuscito a parlare con la gente che manifestava fuori del Palazzo. Ed Epifani, sul governo che verrà, ha idee diametralmente opposte a quelle di Orfini. Secondo lui «l’unica chance» è l’esecutivo «con il centrodestra»: «Non ho paura di dirlo, anche perché, dopo tutti gli scioperi che ho organizzato contro di lui nessuno mi può dare del berlusconiano».
È Epifani, dunque, la carta che potrebbe essere giocata da una parte del Pd al tavolo delle primarie? Sarà lui a sfidare Matteo Renzi alle primarie quando verrà il momento di decidere di chi è la leadership del Partito democratico? L’ex segretario della Cgil si schermisce, ma è proprio lui quello che in questi giorni di sbandamento di Bersani ha cercato di aggiustare la linea e di evitare che il Pd in affanno da eccesso di insulti via web, finisse fuori strada. Certo, Epifani e Renzi sono due mondi opposti. Che però convivono nello stesso partito. «È vero — ammette lo stesso Epifani — ci sono nel Pd due tronconi politici e culturali diversi e in questi giorni, durante la vicenda del Quirinale, si è visto con particolare evidenza».
Maria Teresa Meli