Gaetano Prisciantelli, il Venerdì 19/4/2013, 19 aprile 2013
Sei una piccola anima che porta in giro un cadavere» ammoniva l’uomo il filosofo stoico Epitteto nel I secolo dopo Cristo
Sei una piccola anima che porta in giro un cadavere» ammoniva l’uomo il filosofo stoico Epitteto nel I secolo dopo Cristo. Forse per esprimere sufficienza verso il corpo miserabile, destinato alla polvere. Oppure per sottolineare la fragilità dell’anima davanti a un compito improbo. Certo è che ancora oggi bisogna in qualche modo arrendersi al predominio del corpo. Che la scienza osserva, raccogliendone i segnali e cercando di interpretarli, nel tentativo di strappare qualche punto a favore della mente. Nel celebre dipinto di Rembrandt La lezione di anatomia del dottor Tulp, del 1631, un gruppo di medici è alle prese con il cadavere di Adriaen Adriaenszoon, condannato all’impiccagione per una serie di furti. La giustizia dei tempi destinava il corpo alla scienza come supplemento di pena. Solo così gli anatomisti potevano accedere al continente sacro delle membra umane, ed esplorarle. Un viaggio che continua ancora, con nuove tecnologie, come si legge nel libro Anatomie. Storia culturale del corpo umano che esce oggi in Italia (Rizzoli, pp. 490, euro 20). L’autore, l’inglese Hugh Aldersey-Williams, è un dotto divulgatore scientifico specializzato in chimica – già autore dell’acclamato Favole periodiche (Rizzoli, pp. 590, euro 22) – e confessa di essere da sempre affascinato dagli atlanti anatomici, così belli da sfogliare, ma così inaccessibili per i non addetti ai lavori. Tra citazioni e descrizioni utili a capire come funziona la perfetta architettura del «tutto» e delle parti, Aldersey-Williams ripercorre le storie dei primi anatomisti: esploratori audaci, non sempre in grado di spiegare ai contemporanei la lora voglia di procurarsi corpi da studiare. Leonardo da Vinci si vantò di aver dissezionato una decina di cadaveri «spaventevoli», come li definiva lui, ma essenziali per tentare di cogliere nelle geometrie del corpo le regole della natura (e realizzare disegni che per secoli nessuno riuscirà a eguagliare per precisione scientifica). Intanto gli anatomisti dell’epoca davano il proprio nome ai territori sui quali gettavano per primi una luce. Gabriele Falloppio, che operò nel XVI secolo tra Padova, Pisa e Ferrara, battezzò gli ovidotti umani («nello stesso secolo dello stretto di Magellano e del canale di Drake» annota Aldersey-Williams), mentre al suo coevo Bartolomeo Eustachi, marchigiano, formidabile disegnatore, dobbiamo lo studio della tuba uditiva, o tromba di Eustachio. «Nel secolo XVII l’interesse per l’anatomia umana ha lasciato tracce nelle opere di Shakespeare e del poeta Edmund Spenser» spiega Aldersey-Williams. «Poi, per i due secoli successivi, il corpo è tornato nell’oblio. Non so esattamente perché ma, provando a indovinare, direi che dopo ogni ondata di interesse si afferma una sorta di appagamento. La curiosità è soddisfatta, si sono accumulate conoscenze che appaiono sufficienti e quindi si smette di indagare. D’altra parte, tra Sette e Ottocento non si avevano gli strumenti necessari per affrontare i problemi della biologia cellulare, o della biochimica, o dell’elettrofisiologia. È vero che nel Settecento Luigi Galvani condusse degli esperimenti su elettricità e corpo umano, ma non riuscì a contrastare un generale calo di interesse». E oggi? Sebbene l’anatomia abbia di sicuro favorito i progressi della medicina, il corpo nel suo insieme sembra in qualche modo spaventare la scienza. E chiunque abbia a che fare con i cadaveri proietta un po’ l’ombra sinistra del dottor Frankenstein di Mary Shelley. Inclusi gli studenti della Scuola di disegno e belle arti Ruskin di Oxford, l’unica che porti ancora gli allievi all’obitorio perché si esercitino a realizzare disegni di dissezioni anatomiche dal vero. «Gli scienziati si comportano come se volessero evitare il macabro del corpo» dice Aldersey-Williams «concentrandosi su rappresentazioni astratte, per quanto corrette, come le dettagliatissime immagini digitali». Il corpo osservato dal punto di vista degli anatomisti continua invece a esercitare il suo fascino sulla gente comune. Lo dimostra il successo di telefilm come Bones e Csi, polizieschi nei quali a indicare con certezza chi è l’assassino sono sempre le ossa o gli organi della vittima . E lo ribadisce la fortuna dei saggi scientifici di Mary Roach, brillante divulgatrice autrice di Stecchiti – dedicato ai possibili usi del corpo dopo la morte, dai crash test automobilistici alla sperimentazione di nuove procedure operatorie – di Godere, sulla «scienza del sesso» (entrambi pubblicati da Einaudi), e di Gulp, «un viaggio nell’apparato digerente» (W.W.Norton & C, 27 dollari), appena uscito in America. «Mentre il pubblico esprime così una crescente curiosità verso il corpo umano, la scienza medica sembra andare nella direzione opposta: tende al riduzionismo, si concentra su ciò che è abbastanza piccolo da poter essere capito completamente. Ma questo porta a perdere di vista la connessione tra le cose, il senso del corpo da un punto di vista olistico» dice Aldersey-Williams. La visione globale torna però in primo piano grazie alla novità rappresentata dalle interfacce tra cervello-computer, ovvero i meccanismi che consentono anche alle persone paralizzate di muovere arti-robot con i segnali elettrici del cervello. È un’evoluzione infatti che, a partire dal cervello, ricompone lo schema del corpo umano. Grazie a questa novità, una scienza vintage come l’anatomia sembra destinata a tornare di moda, accanto a scanner tridimensionali, sensori e modelli digitali. «Ci sono scienziati che vedono il cervello come un computer. Ma questo è vero solo per certi versi. Non si può dimenticare che senza l’anatomia non sarà possibile comprendere a fondo i meccanismi cerebrali. Ci piace manipolare concetti asciutti, neutri, ma non dobbiamo rischiare di ripulire la scienza da ogni dimensione biologica. Dobbiamo evitare l’errore di escludere dalla nostra visione tutto ciò che è umido e viscido». Come un corpo in carne e ossa.