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 2013  aprile 19 Venerdì calendario

CONFESSO CHE HO SPIATO


SAN FRANCISCO. Tutto sembra in attesa, tutto sembra appeso a un filo. Se ne è sicuramente reso conto il presidente Obama alla sua prima, e difficile, visita in Israele, nel marzo scorso. Il nuovo governo di Benjamin Netanyahu, appena formato dopo un mese di trattative («all’italiana», con veti incrociati delle maggiori forze politiche), si regge su pochi voti; la guerra civile in Siria ha esiti imprevedibili, e i suoi confini geografici toccano tutti i nervi più sensibili del Medio Oriente; la possibilità che «due Stati» – Israele e Palestina – possano vivere in pace sembra ormai una pia illusione cui, con realismo, bisognerebbe rinunciare. E soprattutto, c’è l’ombra di Teheran e della sua bomba atomica che, secondo l’intelligence Usa, potrebbe essere pronta in meno di un anno. Che cosa può succedere, nessuno lo sa; tutti lo temono. Un prodromo a scelta: lo stretto di Hormuz bloccato; un lancio di missili Hezbollah su Tel Aviv; il bombardamento di una città siriana con anni chimiche. E poi svegliarsi una mattina e scoprire che Israele ha attaccato – un attacco preventivo, solitario e non concordato – le installazioni nucleari iraniane, per impedire quell’olocausto nucleare che gli ayatollah apertamente perseguono e che il mondo, per pavidità, non vuole vedere.
Non è fantapolitica, lo scenario è possibile. Sarà un film ad impedirlo? Questa sì che sarebbe fantapolitica, eppure la sensazione che gli spettatori hanno all’uscita di The Gatekeepers è che il film sia il più lucido e coraggioso tentativo di fermare un disastro imminente. L’altro impellente bisogno che provoca è quello di andare a bere un bicchierino, per superare lo shock emotivo che il film provoca. The Gatekeepers (I guardiani) è un documentario originalmente girato e prodotto per la Tv dal regista israeliano Dror Moreh; si tratta, essenzialmente delle interviste ai sei ultimi capi dello Shin Bet, il leggendario Servizio di sicurezza di Israele, fondato nel 1949 dal primo presidente dello Stato, David Ben Gurion.
In 65 anni di esistenza, il Servizio (segretissimo) ha garantito la sicurezza dello Stato sia dentro i confini che immediatamente fuori, ovvero – a partire dalla guerra del 1967 – dagli attacchi dei palestinesi e dei Paesi arabi circostanti. Per avere un’idea del suo ruolo, Shin Bet è quello che l’Fbi è per gli Stati Uniti, mentre l’altrettanto famoso Mossad, che si occupa delle operazioni esterne, è paragonabile alla Cia americana. Nella realtà Shin Bet, il cui capo risponde unicamente al primo ministro in carica, lavora nel settore dello spionaggio, repressione, infiltrazione, schedatura, politica carceraria ed è autorizzato a compiere operazioni militari ed assassinii mirati nei territori occupati dalla guerra dell’ormai lontano 1967, ovvero a Gaza e nella West Bank. Recluta un numero imprecisato di agenti, ha ingentissimi finanziamenti, è all’avanguardia mondiale nella tecnologia militare (e inventa gli stessi aggeggi che erano protagonisti dei vecchi film di James Bond). L’argomento del documentario è strepitoso. Un salto nella Storia, la storia recente che va sotto il nome di «conflitto israelo-palestinese» e che tutto il mondo – più o meno – conosce. Con immagini mai viste prima, lampi di memoria, archivi recuperati, ecco dipanarsi la storia del generale Moshe Dayan e la sua inaspettata vittoria nella guerra del 1967; la nascita dell’Olp, l’imprevista Intifada del 1987, l’invasione israeliana del Libano del 1982, gli accordi di pace a Oslo nel 1993, l’assassinio di Rabin nel 1995, la seconda Intifada, i terroristi suicidi e l’incerta situazione attuale. The Gatekeepers mostra, senza commenti, immagini spaventose. I protagonisti sono i sei capi del Servizio che guardano lo spettatore negli occhi; uomini che hanno preso decisioni tragiche in pochi minuti, che hanno autorizzato torture sui prigionieri, che hanno valutato «i danni collaterali» dello sganciamento di una bomba da una tonnellata su un edificio nel centro di Gaza City per uccidere in un sol colpo lo stato maggiore del terrorismo di Hamas (non riuscì perché il primo ministro Ariel Sharon autorizzò solo una bomba di 250 chili, che distrusse solo il piano superiore della casa in questione: la riunione era al piano terra). I vecchi capi dello Shin Bet rispondono alle domande più pesanti di una voce fuori campo con estrema sincerità. Il più vecchio, Avraham Shalom (nato a Vienna nel 1928, soldato clandestino sotto l’occupazione britannica della Palestina, membro della squadra che catturò Eichmann a Buenos Aires) comandò il Servizio dall’80 all’86 ed era allora conosciuto come un fanatico inflessibile repressore; appare ora come un mite nonno in poltrona con grandi bretelle e non ha problemi ad ammettere cose che forse in nessun altro Paese sarebbero ammesse.
La storia è poco conosciuta fuori Israele, ma lì fu uno scandalo nazionale, a mala pena sopito, «l’affare del bus 300». Successe nel 1984, quando quattro guerriglieri palestinesi provenienti da Gaza sequestrarono un autobus di linea sulla strada tra Tel Aviv e Ashkelon. I quattro minacciavano di uccidere i 40 passeggeri e cercavano di raggiungere il confine egiziano, chiedendo la liberazione di un grande numero di detenuti palestinesi. L’esercito intervenne e alla fine di uno spettacolare inseguimento, due dei quattro vennero uccisi, i passeggeri liberati, e gli altri due arrestati. La stampa era presente: i due erano vivi, in buona salute e ammanettati. Poi però lo Shin Bet annunciò che erano morti. Ed ora avete il responsabile di allora, il nonno in bretelle, che vi guarda e dice: «Furono quasi linciati dalla popolazione e poi furono uccisi mentre avevano le mani legate. Questa era la morale di quel tempo». Yaakov Peri, una biografia da spia di un romanzo di Le Carré, resse lo Shin Bet dall’88 al 94. Quando il regista gli chiede perché non aveva previsto l’Intifada dell’87, risponde con una domanda: «Mi può dire chi aveva previsto la caduta del muro nel 1989?». Fu l’uomo dietro le quinte degli accordi di Oslo; oggi non esita a dire che la partita si giocò in quegli anni, «dovevamo andarcene, lasciare i territori, trovare un accordo», ma i politici non vollero. Tema centrale del film è l’assassinio di Yitzhak Rabin, il primo ministro definito come «l’unico che voleva davvero la pace, che voleva veramente i due Stati».
E qui c’è il grande rimpianto di queste grandi spie: non essere riusciti a fermare la mano di Yigal Amir, il 25enne militante della destra religiosa che cambiò la storie di Israele. A questo punto, il documentario diventa davvero scomodo, quando i capi dei Servizi raccontano di come vennero arrestati (e poi troppo presto rilasciati, scandalosamente, ma perché vantavano buoni contatti con l’establishment) gli estremisti religiosi che volevano mettere bombe sugli autobus dei lavoratori palestinesi e bombardare addirittura la spianata delle Moschee a Gerusalemme; quando si rivive il contesto dell’omicidio di Rabin, con l’attuale primo ministro Netanyahu che sfila in una manifestazione che porta una bara con il nome del primo ministro degli accordi di Oslo; quando Rabin consigliato di indossare un giubbotto antiproiettile, si rifiuta per ragioni morali. E un giubbotto l’avrebbe salvato. Il finale è tremendo, nella verità che trasuda. Uomini che hanno avuto potere, che hanno sventato l’80 per cento degli attentati previsti, uccidendo a loro volta, uomini cui il mestiere però non ha eroso l’anima, vi spiegano che questa non è la strada, che la repressione non porta da nessuna parte, che per ogni terrorista eliminato ne spuntano altri dieci, che l’attacco all’Iran sarebbe disastroso, che Israele deve convivere con uno Stato palestinese.
Il vecchio Avraham Shalom vi guarda e vi dice che quella israeliana attuale nei territori è una «brutale forza di occupazione, non dissimile da quella nazista in Europa». Yaakov Peri commenta sorridendo che «in questo mestiere, quando vai in pensione diventi un po’ di sinistra». L’ultimo capo, Yuval Diskin, vi dice che l’idea di attaccare Teheran è semplicemente «una catastrofe». Il film si chiude con la profezia del grande filosofo sionista Yeshayahu Leibowitz dopo la guerra dei Sei Giorni: «L’occupazione dei territori sarà un disastro per la coscienza di Israele, che deve liberare se stesso dalla maledizione di dover dominare altri popoli». E quando il regista propone alle sei super spie di Israele questa riflessione, li trova d’accordo. Compresa la tristezza nell’ammissione: «Siamo diventati un popolo di persone crudeli».
Il film The Gatekeepers ha provocato sbigottimento in Israele. Il premier Netanyahu si è rifiutato anche solo di vederlo, Hollywood invece l’ha "premiato tra i migliori documentari per l’Oscar. Tutto il mondo politico è rimasto attonito per il dolore, la sofferenza e la sincerità con cui questi anziani capi militari, chiamati a difendere il loro Paese, riflettono sulla loro vita e sui loro errori, riscrivendo l’autobiografia di Israele. E indicano la strada: il dialogo, le ragioni degli altri, il pragmatismo, lo standard-morale da mantenere. Forse questi vecchietti saranno in grado di far cambiare ai più giovani la visione del mondo.
Enrico Deaglio