Giuseppe Remuzzi, La Lettura 14/4/2013, 14 aprile 2013
Tags : Anno 1901. Raggruppati per paesi. Stati Uniti
E UN GATTO SURCLASSO’ I LUMINARI
Che cosa c’entra la più grande e famosa rivista di medicina del mondo, il «New England Journal of Medicine» con la rivoluzione americana? C’entra per via di un dottore speciale, Joseph Warren, un uomo elegante, brillante e molto bello. Si laurea a diciott’anni e a neppure trenta è già famoso: sa curare il vaiolo. Medico e soldato, diventa il capo del comitato per la sicurezza di Boston all’inizio della guerra d’Indipendenza e mette in piedi un sistema di spionaggio formidabile. E non basta, è così stimato che lo chiamano ad assistere la moglie del generale inglese Thomas Gage. È da lei che Warren viene a sapere delle intenzioni dei britannici di spostare le truppe in campagna per impadronirsi di armi e munizioni dei coloni. Gli inglesi vengono sconfitti a Bunker Hill, nel giugno 1775, ma Warren muore in battaglia. Al fratello John, studente di medicina, restano i ferri chirurgici di Joseph e l’obbligo morale di continuare a curare i feriti di quella battaglia.
John Warren fonda la scuola di medicina di Harvard. Avrà 17 figli. Uno di loro, John Collins Warren, comincia gli studi di medicina a Boston, poi va a Londra e a Parigi; la laurea non la prenderà mai, ma Harvard gliene attribuirà una honoris causa. Sarà proprio Collins Warren nel 1812 a fondare il «New England Journal of Medicine and Surgery and the Collateral Branches of Science». Il primo articolo è del 1° gennaio 1812: Remarks on Angina Pectoris, a firma di John Warren, il padre di Collins Warren. Oggi ci sarebbe da ridire sul fatto che John Collins Warren riceve una laurea honoris causa dalla scuola di medicina fondata dal padre e poi chiede proprio al padre di scrivere il primo articolo per il suo nuovo giornale. Sta di fatto che quelle considerazioni sull’angina pectoris restano, nella storia della medicina, come la più bella descrizione che qualcuno sia mai stato capace di fare dei sintomi che precedono l’infarto.
Nel giro di dieci anni la comunità di Boston sentì l’esigenza di una rivista settimanale. Il 29 aprile del 1823 cominciò a uscire come «Boston Medical Intelligencer». L’obiettivo era quello di pubblicare casi clinici e poi tutto quello che succedeva nella medicina — soprattutto in Europa — per non restare indietro. Pochi anni dopo il nome cambia in «Boston Medical and Surgical Journal». Si continuano a pubblicare casi interessanti, ma bisogna aspettare fino al 1846 per trovare un lavoro davvero originale: Henry Jacob Bigelow, uno dei chirurghi del Massachusetts General Hospital, era riuscito ad anestetizzare con l’etere un paziente a cui doveva essere amputata una gamba. Dopo l’intervento l’ammalato aveva ripreso coscienza, a quel tempo non era affatto scontato. Nel 2012 il «New England Journal of Medicine» ha celebrato i 200 anni dalla sua fondazione. Quest’anno è partito un sondaggio. «Diteci — ha chiesto il direttore ai lettori — qual è stato nella nostra storia l’articolo più importante». Hanno risposto in novemila, l’articolo più votato è proprio quello di Bigelow sulla prima anestesia.
Nel febbraio 1896 il «Boston Medical and Surgical Journal» pubblicò una delle prime radiografie, quella della mano di un ammalato con un’anomalia della falange distale del dito mignolo, poi nel 1901 spiegò che l’aspirina è meglio dell’acido salicilico per i reumatismi. È nel 1911 che il salvarsan (uno dei primi chemioterapici) si può usare per la sifilide, le verruche volgari e la lebbra. In quegli anni però le grandi scoperte della medicina si pubblicavano in Europa. Nel 1918 arriva l’influenza spagnola: il «Boston Medical and Surgical Journal» offre ai medici una splendida interpretazione dei sintomi e tratta delle precauzioni da prendere. Un’altra delle grandi scoperte di quegli anni (1925) è l’insulina per la cura del diabete, che però finisce sul «Journal of American Medical Association». Nel 1921 la Società di medicina del Massachusetts compra il «Boston Medical Surgery Journal» per un dollaro e il 23 febbraio del ’28 nasce il «New England Journal of Medicine». C’era già la pubblicità a quel tempo: sigarette (Chesterfields), whisky (Johnnie Walker), chewing gum e Coca-Cola: davvero molto particolare per una rivista di medicina.
Nel 1954 si fa il primo trapianto di rene. Ad annunciarlo non è una rivista, ma il «Times»: si racconta di Ronald Herrick che dona un rene al fratello Richard, ammalato di una grave forma di nefrite. Il lavoro vero e proprio esce solo un anno dopo nel «Journal of American Medical Association». Nel 1960 il «New England Journal of Medicine» pubblica la notizia del vaccino per il morbillo, provato prima sulle scimmie e poi sui bambini. Quel lavoro ha salvato la vita ad almeno 20 milioni di bambini. Da allora gran parte della storia del «New England Journal of Medicine» coincide con quella della medicina: la scoperta di farmaci capaci di curare l’Aids, la cura dell’ictus del cervello, le prime difficoltà con la fecondazione in provetta e il fatto che l’ulcera dello stomaco possa portare a tumori.
L’articolo più letto del «New England Journal of Medicine» degli ultimi cinque anni? Uno potrebbe pensare a quello sull’effetto dei farmaci che abbassano il colesterolo o su come evitare le complicanze del diabete, o a quello ormai famoso su H1N1 o a certi studi su nuovi farmaci per il trattamento del tumore alla mammella metastatico. Invece no, non è nessuno di questi.
Quello più letto è un racconto che ha poco di scientifico a prima vista e che colpisce la fantasia: è la storia di un gatto, un gatto davvero speciale, «Oscar the Cat». Passa le sue giornate al terzo piano di uno dei padiglioni dell’ospedale di Rhode Island a Providence, dove si ricoverano i malati di Alzheimer. Va e viene per i corridoi, dorme un po’ qua e un po’ là come tutti i gatti, qualche volta, di tanto in tanto si avvicina alla sua ciotola per mangiare o per bere, si appisola sulla sedia di qualche infermiere. Se trova la porta socchiusa, capita perfino che entri in qualche camera, faccia un giro e, di solito, se ne vada via. Salvo una volta (la sua prima volta). Entra in camera di Sara, s’accomoda sul letto e non si muove da lì. La paziente è in coma. Entra un’infermiera, Sara respira malissimo. Chiamano i parenti perché abbiano il tempo di prepararsi. Arrivano. La stanza di Sara è piena di gente adesso: i figli e cinque nipoti. Oscar non si è mosso, sempre lì steso sul letto accanto a Sara. «Chissà, forse vuole accompagnare la nonna in paradiso», sussurra Julie, la nipotina più piccola. L’ultimo sospiro per Sara è poco dopo. Oscar se ne va, senza che nessuno ci faccia caso, torna a dormire nella sua cesta. Ha finito il suo lavoro: non morirà nessun altro oggi al terzo piano, quello degli ammalati di Alzheimer, nemmeno la signora della camera 20 ammalata di demenza e di tumore, che stava già malissimo dalla mattina.
Medici e infermieri del terzo piano, allo Steere House Nursing Center, hanno adottato Oscar che era cucciolo di pochi giorni e miagolava disperato in un seminterrato. Con il tempo il gatto ha imparato a prevedere chi morirà di lì a poco, l’ha fatto 25 volte finora senza sbagliare mai (e medici e infermieri hanno il tempo di chiamare i parenti e prepararli). Così Oscar sta vicino anche a chi, se no, morirebbe da solo. «Questo riconoscimento è per Oscar, Oscar the Cat, per la sua attenzione a quelli che hanno più bisogno», c’è scritto proprio così sulla targa che gli infermieri hanno voluto dedicare al loro gatto. Lui, Oscar, ogni tanto ci passa davanti, butta l’occhio e torna a dormire.