Umberto Broccoli, Sette 19/4/2013, 19 aprile 2013
A UN PASSO DALLA GUERRA MA CON LE CALZE DI NYLON
1938 La musica leggera era sostituita da marce e marcette varie, a metà strada fra una primavera di bellezza e Vado vinco e torno: una canzone slogan, scandita alla radio con la voce tenorile di Francesco Albanese. Eccola: «Ho appena il tempo di darti un bacio / bambina mia non è più come ieri, / m’hanno assegnato al terzo Bersaglieri / vado alla celere è un grande onor, / ti do una piuma del mio cappello / è questo il segno di un grande amor. / Aspetta mia bambina il nostro giorno, / vado, vinco e torno». Il bello, o meglio, il brutto era immaginare oggi, tanta gente coinvolta ieri da atmosfere del genere. E dopo questa promessa bersagliera in punta di piuma arrivava stentorea la voce di Titta Arista: «La città dei due imperi attende il capo della nazione amica. Roma ha un fremito solo: quello di migliaia e migliaia di bandiere che palpitano al vento da pili, pennoni e antenne, col segno romano e imperiale dell’aquila d’oro ad ali spiegate. La partenza e il viaggio tra le ardenti manifestazioni delle moltitudini tedesche. Da Berlino a Roma attraverso un mare di bandiere. L’Urbe prepara onori trionfali all’Ospite. Vibranti parole di Göring: “Tutti gli occhi del mondo sono rivolti verso Roma dove avrà luogo l’incontro dei due più grandi uomini del nostro secolo”». Quella giornata è particolare anche per le tracce sonore lasciate e lanciate nell’etere. Rileggendo, sembra di riascoltare e sembra di rivedere un allestimento degno della migliore Cinecittà, nata un anno prima, nel 1937: «Nello stupore della luce, tra le alte colonne quadre che si vedono, fra i bagliori, come lesene su cui stanno le aquile di Roma, è il piazzale della nuovissima stazione Ostiense, ove sono, schierati, reparti di nazisti residenti in Italia. Su di un lato del piazzale sono i balilla gli avanguardisti con vicini alcuni reparti di giovani hitleriani; di fronte, reparti della G.I.L. e gli accademisti della Farnesina con la musica. Balenano tra gli alti pennoni, le lance di dragoni del Genova Cavalleria. L’edificio della stazione traccia la sua lunga sala d’onore secondo le linee nette e robuste di uno stile moderno che trae, dalla romanità, i suoi motivi dominanti. I quindici colossali pilastri si susseguono sui due lati, e scorre, piatta, la navata che si inarca, poi, a spiovente, sopra la via ferrata». Tutti nei pressi della stazione Ostiense a Roma. E gli assenti dovevano essere tali con un buon motivo: i capifabbricato avrebbero potuto spifferare tutto alla polizia. Già, perché in quel 1938 era largamente sviluppato quel sistema di controllo capillare, rigorosamente fondato sulla delazione in via gerarchica, di capo in capo, fino al capo dei capi. In un festival di teste sulla cui natura ci interroghiamo ancora. Tutti schierati fuori dalla stazione Ostiense, in formato scenografia cinematografica: schierate le legioni, schierati i reparti, schierati i giovani balilla.
Tragicomica passerella. Oggi queste atmosfere ci fanno sorridere anche per questo schieramento surreale di forze: ma tra bande musicali, saluti romani, canzonacce urlate al vento c’era molto poco da ridere, seguendo gli eventi accaduti dopo quella mattina di martedì 3 maggio 1938. Questa è per sommi capi la cronaca di quella giornata particolare. 3 maggio mattina: il vagone letto del Führer arriva a Roma. Alla stazione Ostiense, fresca di lavori, sono ad attenderlo Vittorio Emanuele III e Benito Mussolini. Mussolini dall’alto del suo metro e sessantasette sovrasta di una testa intera il re, che è alto un metro e cinquanta. Il Führer non è solo: con lui tutto lo staff dei suoi collaboratori ben noti negli anni successivi. Una passerella emblematica e vagamente comica per costumi e atteggiamenti. Vagamente comica, se non fosse diventata drammatica di lì a poco. Ecco gli attori: Heinrich Himmler (capo delle SS), Joseph Paul Goebbels (capo della propaganda), Hermann Göring (capo della Luftwaffe), Joachim von Ribbentrop (ministro degli Esteri), Rudolph Hess (vice di Hitler). Per sommi capi, appunto. E poi, gli italiani. Maestro delle cerimonie è Galeazzo Ciano, collega detestante Joachim von Ribbentrop e a sua volta detestato dal ministro tedesco, con l’ossessione della nobiltà da esibire a colpi di “von”. Schierati lungo il percorso di cinque chilometri dalla stazione Ostiense al Quirinale, migliaia di soldati disposti su otto righe facevano cordone alla folla, sotto le svastiche nero ebano e i fasci dorati dei drappi svolazzanti contro le facciate delle case, sulle quali era scritto a lettere cubitali «viva il Führer». Altrove altri cartelloni: «Vincere e vinceremo», anche questo uno slogan lanciato da Mussolini e diventato una marcetta paramilitare, qualche tempo dopo il 1938. Ecco la vera follia del mondo: dallo stesso strumento, la radio, si diffondevano messaggi di vita quotidiana parallelamente a segnali di retorica violenta. Da una parte Vivere, dall’altra Vincere, con un testo fin troppo eloquente: «Temprata da mille passioni / la voce d’Italia squillò! / Centurie, coorti, legioni, / in piedi che l’ora suonò! / Avanti, gioventù! / Ogni vincolo, ogni ostacolo superiamo; / spezziam la schiavitù / che ci soffoca prigionieri del nostro Mar!». E questa è la strofa, dove manca nulla: la chiamata a raccolta della gioventù, la citazione delle legioni romane, il sentirsi schiavi e prigionieri del mare nostrum. Poi arriva il ritornello: una grandinata di tutti i luoghi comuni della propaganda fascista, portata avanti cantando, marciando e battendo il passo, ovviamente romano. «Vincere! Vincere! Vincere! / E vinceremo in terra, in cielo, in mare! / È la parola d’ordine / d’una suprema volontà! / Vincere! Vincere! Vincere! / Ad ogni costo, nessun ci fermerà! / I cuori ch’esultano, / son pronti a obbedir, / son pronti lo giurano: / o vincere o morir!». Carlo Buti, tenore, canta Vivere. Michele Montanari, tenore, canta Vincere. Stessa passione in due direzioni opposte: l’uno pronto a goder la vita, l’altro a santificar la morte se non arriva la vittoria in battaglia. L’uno a correre verso la libertà, l’altro a marciare con passo romano verso la prevaricazione. Così l’altra strofa di Vincere: «Elmetto, pugnale, moschetto, / a passo romano si va! / La fiamma che brucia nel petto / ci sprona, ci guida, si va! / Avanti! Si oserà l’inosabile, / l’impossibile non esiste! / La nostra volontà è invincibile, / mai nessun ci piegherà!». La virilità del regime cammina così, mentre per la femminilità è in arrivo un’invenzione di quel 1938: nascono le calze di nylon, e diventano un genere di consumo alla portata di tutti. Fino agli Anni Venti le calze sono di seta o grezze.
Senza smagliature. La vera rivoluzione arriva alla fine degli Anni Trenta: non più seta, né tela grezza, ma nylon, a sostituire anche il rayon o seta artificiale. E mentre gli uomini marciano a passo romano, le donne mettono le gambe bene in vista grazie a Wallace H. Carothers e al suo nylon derivato dal petrolio. Nylon da “no Run”, senza smagliature e Rhodiatoce acquisisce il brevetto per l’Italia, accompagnato ancora una volta dalla radio e dalle sue canzoni. 1938 con la voce del solito tenore leggero (Enzo Aita) o con le sonorità del Trio Lescano arriva il motivetto: «Saran belli gli occhi neri, / saran belli gli occhi blu, / ma le gambe, ma le gambe / a me piacciono di più. / Saran belli gli occhi azzurri / e il nasino un po’ all’insù, / ma le gambe, ma le gambe / sono belle ancor di più». Ma le gambe, firmata da Alfredo Bracchi e Giovanni D’Anzi e scritta proprio per sottolineare questo sgambettare al femminile, del tutto nuovo in quello scorcio degli Anni Trenta. Le calze di nylon vanno in commercio con lo slogan «fibra robusta come l’acciaio, sottile come una ragnatela, eppure più elastica di tutte le fibre naturali», anche questo detto alla radio con la stessa voce enfaticamente stentorea con la quale si annunciavano i grandi eventi. Era tutto esagerato, ridondante: la fibra della calza doveva necessariamente essere «robusta come l’acciaio», perché d’acciaio si immaginava il patto con la Germania, e l’acciaio era il termine di paragone per ogni cosa da celebrare come durevole. La moda dilaga, la donna indossa, l’uomo (chiamato sempre e costantemente “maschio”) sogna. Per un paio di calze una donna poteva spendere dalle 10 alle 20 lire: non era poco, ma era sempre molto meno della seta. Due anni prima, nel 1936, la ditta Noemi lancia la calza con «cucitura anteriore, avanguardia della moda». Sempre alla radio e sempre con lo stesso stile, lo slogan pubblicitario: «La cucitura sul davanti accomuna l’estetica alla praticità. Non si gira, non si smaglia, snellisce la gamba. Assottiglia la caviglia». Ma non fu un successo: la cucitura anteriore impediva di guardare la gambe dal di dietro. E la cucitura passerà dietro, a sottolineare il resto della coscia e i polpacci. Ma, nonostante il risparmio, c’era chi non si poteva permettere nemmeno il nylon e si rimediava così: nasce la “Fintacalza”. È un barattolo di tintura, da spalmare fino al giro coscia. Assieme a una matita a carboncino per tracciare la linea nera sul retro: capacità autarchiche applicate alla moda. Da quel 1938 in poi, nascono espressioni e modi di dire diffusi come e con le calze, tipo: «Come è la riga? Dritta o storta?», dopo un incontro clandestino. Oppure: «Mi hai smagliato una calza», e qui poteva finire un amore. E poi ancora: «Devo tirarmi su una calza», per poi entrare in un portone dopo aver chiesto all’amica di sorvegliare perché non passasse nessuno. Perché le signorine erano ancor di più oggetti di sguardi e attenzioni al maschile. I commenti, come al solito, erano più o meno sempre gli stessi: gli uomini non si limitavano a osservare, passeggiando per strada, con i loro doppiopetto grigio gessato, il borsalino in testa, i capelli lucidi di brillantina, con la riga a sinistra (ma c’è chi preferiva la riga a destra), la sigaretta in bocca e lo sguardo maliardo. Ma gli uomini partecipavano emotivamente alla scoperta progressiva delle gambe, vivendo una rivoluzione simile a quella vissuta dai ragazzi degli Anni Sessanta di fronte alle prime minigonne. Gli uomini salutavano l’invenzione del nylon e la scoperta delle gambe, tendenzialmente facendo finta di stigmatizzare, soprattutto se la scoperta avveniva in presenza di altri o di altre. Poi, nella tradizione migliore dello sguardo al maschile, questo andava a posarsi sulle trasparenze di una novità in grado di lasciare il campo libero a ogni tipo di fantasia.
L’edonismo in camicia nera. E in quella fine Anni Trenta, ecco spuntare come funghi gli intenditori della caviglia stretta, gli specialisti del ginocchio rastremato, gli esteti della lunghezza in rapporto all’altezza e via sgambando. Tornava prepotente l’inno a «Vivere, senza malinconia / Vivere, senza più gelosia / Vivere pur se al cuore / ritorna un attimo di nostalgia. / Io non ho più rancore, / e ringrazio chi me l’ha portata via. / Ridere, / sempre così giocondo. / Ridere, / delle follie del mondo. / Vivere, / finché c’è gioventù / perché la vita è bella / la voglio vivere sempre più!», con un edonismo in camicia nera in contraddizione netta con la campagna a favore delle nascite e contro gli scapoli, i single di allora. Qui era l’esaltazione del rapporto finito, della gelosia da bandire, della nostalgia da archiviare, meglio se con un chiodo per scacciare l’altro chiodo. Del resto, nel 1938 la donna si era scoperta le gambe, l’italiano medio era illuso e si era calato in un’era da vivere, anche se il mondo era affacciato sull’abisso in quel 16° anno dell’era fascista. “Era” è un imperfetto: “è” è il presente ed è drammatico. Se ne accorge Achille Ratti, papa Pio XI. Queste le sue parole alla radio il 29 settembre 1938: «Mentre milioni di uomini vivono ancora in ansia per l’incombente pericolo di guerra e per la minaccia di stragi e rovine senza esempio, Noi accogliamo nel Nostro cuore paterno la trepidazione di tanti Nostri figli e invitiamo Vescovi, Clero, Religiosi, fedeli a unirsi a Noi nella più fiduciosa insistente preghiera per la conservazione della pace nella giustizia e nella carità». Cosa stava accadendo? Ancora una volta l’imperfetto “era”, per una situazione fin troppo presente: la questione dei Sudeti, cioè quel territorio dell’antica Cecoslovacchia con una forte presenza tedesca. È la miccia che farà esplodere la Seconda guerra mondiale e scuote l’Europa e il mondo in quel 1938, ultimo anno di pace. Nasce come contrasto interno cecoslovacco tra il «fronte patriottico dei tedeschi sudeti» – appendice del disciolto partito nazista – e il governo di Praga. Il 12 settembre Hitler è a Norimberga per il congresso annuale del partito, dove pronuncia un discorso che si rivela un attacco violentissimo contro lo Stato ceco e contro il suo presidente Benes. Ma non è ancora una dichiarazione di guerra. Hitler chiede solo che il governo ceco renda giustizia ai tedeschi sudeti. In caso contrario avrebbe provveduto lo stesso Reich. I governi europei scrivono telegrammi, prendono posizione, stigmatizzano e non succede praticamente alcunché, fino alla fine del mese. 30 settembre 1938: Hitler fa un discorso al Palazzo dello Sport di Monaco, trasmesso alla radio. L’Europa ascolta queste parole: «Ho fatto al Signor Benes un’offerta che non è altro la realizzazione di quello che lui stesso ha già assicurato, adesso la decisione è nelle sue mani, pace o guerra dovrà accettare questa offerta e concedere ora la libertà ai tedeschi, oppure questa libertà ce la verremo a prendere» e fissa il termine del 1° ottobre per l’evacuazione dei cechi. Siamo ormai sull’orlo dell’abisso. La guerra è sempre più vicina e vanno in scena le follie del mondo: a Parigi, Berlino, Londra si scavano trincee, si evacuano i bambini dalle scuole, si sgomberano gli ospedali. Altre trattative, senza esito: l’esercito tedesco può iniziare la sua marcia nella Cecoslovacchia il 1° ottobre, per poi occupare la regione dei Sudeti entro il 10. In sei mesi Hitler ha conquistato l’Austria e la regione dei Sudeti, annettendo al terzo Reich dieci milioni di abitanti, senza il sacrificio di un solo soldato tedesco. In Inghilterra, Winston Churchill parla alla Camera dei Comuni il 5 ottobre 1938. La radio trasmette, l’Europa intera ascolta il de profundis: «Abbiamo subito una disfatta totale e senza scusanti. Ci troviamo dinanzi a un disastro di prima grandezza. La via lungo il Danubio, la via al Mar Nero, è stata aperta ai tedeschi […]. Tutti i Paesi dell’Europa centrale e del bacino danubiano verranno assorbiti nel vasto sistema della politica nazista. E non pensate che questo sia la fine. È soltanto l’Inizio». Signore e signori, è la guerra! E dopo aver inneggiato alla «gioventù, perché la vita è bella e la voglio vivere sempre più», ci si ritrova tutti, ancora una volta soffocati da quella «giovinezza / giovinezza / primavera di bellezza / nella vita e nell’asprezza / il tuo canto squilla e va». Testo e musica nati anni prima con il fascismo e firmati da Salvator Gotta e Giuseppe Blanc. Da quel settembre si marcia a passo dell’oca, apparentemente ordinati e ritmati. Ma sarà una slavina generale a far rotolare tutto, rovinando nel precipizio mondiale tra farsa e tragedia. Ecco la farsa: in quel 1938 il regime fascista si impegna in una regolamentazione rigida dei comportamenti e del costume. A febbraio, Achille Starace propone la sostituzione del voi al posto del lei. Il lei doveva essere assolutamente bandito. Un esempio per tutti. Il settimanale femminile Lei deve cambiare titolo e, per evitare equivoci, si chiamerà Annabella. La farsa continua: nascono gli elenchi di parole proibite contro le parole straniere ed esotiche. Per cui pellicola al posto di film, color barolo invece di color bordeaux, apertura al posto di overture. Ma la farsa non ha limiti: via le parole italiane con richiamo indiretto a nazioni nemiche. Non più insalata russa, ma insalata tricolore.
Persecuzioni razziali. Ed ecco entrare prepotente il passo romano, imitazione del passo dell’oca germanico. Si consolidano le famose veline. Si occupano, preoccupano e di tutto, politica, arte, sport, costume. Nulla a che vedere con le ragazze più o meno vestite, ma le veline sono fogli di carta leggera con cui dare indicazioni ai direttori di giornali su cosa e come pubblicare. Qualche esempio: 28 giugno 1935, «Non pubblicare fotografie di Carnera a terra» come dire, guai a far vedere perdente il campione del mondo italiano dei pesi massimi Primo Carnera. E poi, 30 luglio 1935: «Non dare troppo rilievo al manifesto di Marinetti». E anche, 26 dicembre 1936: «Non interessarsi mai di Einstein»: era ebreo. Già, perché in quel 1938 i provvedimenti del Governo fascista non si limitavano al lei, al voi, al passo romano, ai battaglioni del duce. Nell’estate del 1938 vengono varate le leggi razziali. Per cui: «Il Gran Consiglio del Fascismo stabilisce: il divieto di matrimoni di italiani e italiane con elementi appartenenti alle razze camita, semita e altre razze non ariane; il divieto per i dipendenti dello Stato e di enti pubblici – personale civile e militare – di contrarre matrimonio con donne straniere di qualsiasi razza; il matrimonio di italiani e italiane con stranieri anche di razze ariane dovrà avere il preventivo consenso del ministero dell’Interno […]» e via delirando. La farsa è diventata tragedia: scimmiottata dalla Germania, arriva propaganda razziale e antisemita, con una tempesta di follie del mondo. Il 14 luglio viene pubblicato il manifesto degli scienziati razzisti, il 5 agosto esce il primo numero del quindicinale diretto da Telesio Interlandi contro gli ebrei, via via fino al 1° settembre, giorno in cui una serie di provvedimenti antisemiti viene varata dal consiglio dei ministri. Gli ebrei stranieri sono espulsi, e agli ebrei viene tolta la cittadinanza, se ottenuta dopo il 1918. Sono esclusi dall’insegnamento nelle scuole statali di ogni ordine e grado, non possono frequentare scuole secondarie pubbliche e nelle elementari vengono raggruppati in sezioni speciali. Cosi, tanti anni dopo, sempre alla radio Giacomo Piperno ricorda questa farsa trasformata in tragedia: «Mia madre lavorava nell’azienda che era stata l’azienda di papà, l’azienda di famiglia, e mi portò da una cliente a mostrargli il campionario. Mentre stavamo lì dal giornale uscì fuori questa prima disposizione sulle leggi razziali, primo decreto che fu fatto dal ministro Bottai, primo a fare questa legge, che allontanava da tutte le scuole del Regno, come si diceva allora, tutti gli studenti di razza ebraica, che avevano questa brutta denominazione e tutti i professori. Mia madre è stata una donna eccezionale sempre molto tranquilla, anche molto serena, poche volte l’ho vista perdere le staffe, e quel giorno proprio l’ho vista perdere le staffe. Fummo cacciati dalla scuola, io non so come si possa dire […]. Pensate al dolore di un ragazzo, io avevo dieci anni, ma c’erano quelli che ne avevano diciotto, che viene cacciato dal proprio ambiente, dai propri amici, la scuola era la nostra vita, di punto in bianco cacciati via». Ci siamo e il resto è nella logica delle follie del mondo. Un anno dopo: 24 agosto del 1939. Per tutto il mese sono arrivati segnali di guerra. La Germania, in nome dello spazio vitale, invia soldati al confine per annettersi la Polonia e completare l’opera iniziata l’anno prima. Sempre il 24 agosto il papa Pio XII (Eugenio Pacelli, eletto il 2 marzo di quello stesso anno), per radio invita i governi del mondo a usare la forza della ragione e non quella delle armi. 1 settembre del 1939. Quasi in sordina, le truppe di Adolf Hitler entrano in Polonia in nome dello spazio vitale. Il tutto, cantando e ballando sull’orlo dell’abisso: oltre cinquantacinquemiloni di uomini al mondo smetteranno di «Vivere, finché c’è gioventù perché la vita è bella e la voglio vivere sempre più».