Lietta Tornabuoni, l’Europeo 4/2013, 19 aprile 2013
CON QUELL’ESTRO TORMENTATORE
MALEDETTO CIOCIARO. Ancora oggi appena mi vede la gente attacca subito: Nino Manfredi, Ninetto Manfredini, il barista di Ceccano, quello della televisione... Allora i produttori mi offrivano cifre pazzesche per film intitolati Fusse che fusse la vorta bbona, Ninetto ciociaro col carretto, Pecore amore e Ciociaria, Nino ciociaro sopraffino... Se mi fossi lasciato tentare sarei diventato un Alberto Talegalli (famoso nel 1953 per il suo personaggio radiofonico: il sor Clemente, ndr), un Enrico Luzi o un Carlo Croccolo, e avrei chiuso lì. Maledetto ciociaro, la tv voleva la mia rovina: ma io sono riuscito a sopravvivere».
Della macchietta che nove anni fa (il barista ciociaro, Canzonissima, 1959, ndr) gli fece conquistare di colpo il pubblico televisivo, Nino Manfredi parla come di una malattia fatale o di un rischio drammatico. Del resto anche la sua vocazione di comico nasce dal dramma, però sentimentale: «Avevo preso una sbandata per una ragazza. Un pomeriggio lei mi pianta. La sera dovevo lavorare, recitavo ne La dodicesima notte di William Shakespeare al Teatro delle Arti di Roma, regia di Orazio Costa. Avrei preferito morire, ma il teatro è teatro: vesto la giubba, infarino la faccia, rido pagliaccio e con il mio cuore infranto vado in scena. Papere, battute saltate, gesti inconsulti: una pena, un macello, un cane spaventoso. Prendo gli stessi applausi di tutte le altre sere. Allora penso: porca miseria, vuoi dire che io non conto niente, che sono unicamente un portavoce di Shakespeare. Di qui la crisi: capii che finché recitavo Shakespeare, Luigi Pirandello o Henrik Ibsen non avrei mai saputo cosa valevo. Per saperlo dovevo mettermi in palcoscenico da solo, senza la protezione di un testo importante. Di fronte a un pubblico che non ha rispetto e non sente ragioni, quello che ti urla soltanto “Aho, ’a coso, facce ride‚”, e che, se non lo fai ridere, ti lincia. Venivo da tre anni di Accademia d’arte drammatica, da tre anni di Piccolo teatro di Milano e Piccolo teatro di Roma. Andai in rivista con le sorelle Diana, Lisetta e Pinuccia Nava, in uno spettacolo intitolato Tre per tre... Nava. Mi sono tirato addosso fischi e sberleffi mai sentiti, però è stata una grande scuola: le Nava, Billi e Riva (la coppia comica formata da Riccardo Billi e Mario Riva, ndr), Wanda Osiris, le commedie musicali di Pietro Garinei e Sandro Giovannini, Un trapezio per Lisistrata e Rugantino...». Persino il suo ultimo film Italian Secret Service raccontato da lui diventa drammatico: «In questa nostra civiltà dei consumi, il socio di un’enorme industria produttrice di una bibita famosa in tutto il mondo a un certo punto decide di rivelare ai russi la formula della bibita: per contribuire alla pace e alla fratellanza tra i popoli. Gli altri soci decidono subito di farlo fuori; la lotta industriale è più feroce della guerra. Come killer scelgono un ex partigiano, uno di quegli eroi della Resistenza leggendari ma delusi, mai riusciti a inserirsi nella società, che vivacchiano alle spalle della moglie lavoratrice rimpiangendo il passato. Per convincerlo gli danno a intendere che l’uomo da far fuori è il capo di un risorgente movimento nazista. Dopo un po’ lui capisce che non è vero, ma di rinunciare ai quattrini non se la sente. Di ammazzare nemmeno. Così passa l’incarico a un altro, per metà della somma, s’intende; l’altro accetta ma non ce la fa e passa l’incarico a un terzo, il quale passa l’incarico a un quarto che si fa sostituire da un quinto... La catena dei killer inetti si allunga, il compenso per l’assassino si immiserisce, la situazione si fa angosciosa...». Ma non è un film comico? «E come no? Se lo immagina quanto può diventare buffo un Bond italiano? Che se ne fa della licenza di uccidere? Con il permesso o no, l’italiano rifugge dall’assassinio, come freddo sicario è inconcepibile, se ammazza, ammazza soltanto per amore, per rancore o per errore. Che se ne fa di tutte quelle ragazze intorno? L’italiano è seduttore solo a parole, nei fatti ha paura della moglie, e se le ragazze sono italiane a loro volta desidereranno solo farsi sposare. Che se ne fa della famosa automobile pluriarmata? Si può stare sicuri che al momento buono le mitragliatrici non fuoriescono, la cortina fumogena non si sprigiona e il meccanico ha sempre la scusa pronta: “Che ce posso fa’ io, dottò? C’è ’sta vitarella che non ingrana, dev’essere un difetto de fabbricazione, mo’ magari provarne co’ lo scotch”. Certo che è un film comico, come no?».
E ALLORA PERCHÉ NE PARLA come di una storia seria? «Perché io sono un uomo serio. Non si vede?». Si vede senz’altro. È seria la sua casa all’Aventino, il salotto borghese con i divani di velluto, le boiseries, gli argenti, i libri, i fiori secchi composti in mazzolini ottocenteschi. E alle pareti disegni di George Grosz, quadri di Massimo Campigli, il bei Trovatore stanco di Giorgio de Chirico. Sono serie le sue abitudini: vita strettamente famigliare, qualche buona lettura, nessuna sregolatezza, ambizioni intellettuali, televisione, la sera a letto presto. Al massimo, a cena in trattoria con gli amici che da 25 anni sono sempre gli stessi: attori o registi ex compagni di accademia ma soprattutto architetti, ingegneri, medici. E così disabituato a una vita diversa che, se una sera si trova solo a Madrid, non sa proprio che fare: così finisce con l’andare a rivedere il suo film Crimen, ridendo pazzamente nell’ascoltarsi recitare in spagnolo. Sono serie le sue manie, dice la moglie che lo vede sussultare perché un portacenere non è stato vuotato, impallidire davanti a un armadio in disordine, angosciarsi per una lampadina fulminata non sostituita, per una bolletta pagata in ritardo o per il più casuale starnuto di uno dei loro bambini. E serio il suo modo di guidare l’automobile: mai superati i 120 l’ora, la stessa macchina conservata il più a lungo possibile con una cura tale che gli hanno valutato 2 milioni una Porsche pagata 3 milioni cinque anni prima. E serio il suo rispetto per il danaro, per la proprietà, “la roba”; e la sua prudenza nel pensare all’avvenire, nel non sprecare ne buttare mai via nulla, nel non fare mai il passo più lungo della gamba. È serio il suo senso della dignità. L’unica volta in cui rischiò di strozzare un uomo fu quando un ispettore del fisco si presentò a casa sua e gli chiese bruscamente dove nascondesse lo yacht: «Ha capito che roba? Ma come ti permetti, villanzone? Tu devi domandarmi: “Scusi signor Manfredi, risponde a verità che lei possiede, ha posseduto o intende acquistare uno yacht?”. Tra l’altro io non mi sono mai sognato non dico lo yacht ma neanche la barchetta; avevo un motore fuoribordo da cinque cavalli per far divertire i bambini, ma è stata tanta la rabbia che ho dato via anche quello». Potrebbe sembrare poco seria la sua maniera di esprimersi, sempre fittamente intessuta di parolacce, doppi sensi, grossolanità, intemperanze dialettali: «In realtà essendo molto timido e complessato cerco di mascherarmi facendo l’allegrone romanesco, il superficialone; la volgarità mi serve per vivere, per stabilire subito un rapporto diretto con gli altri». Infatti gli argomenti su cui esercita il suo turpiloquio passepartout sono poi serissimi: la crisi del cinema italiano rimasto senza linguaggio e senza attori preparati, la sua costante paura della morte, lo sgretolamento di tutti gli ideali politici. O il silenzio di Dio: «Non sa come invidio mia madre quando mi dice che è stata in chiesa e ha pregato per me, mentre io la notte resto sveglio con gli occhi sbarrati perché non credo più a niente e posso aggrapparmi solo ai sostegni insufficienti della famiglia e del lavoro». È serio il suo senso della moralità. Quando venne accusato di oscenità per uno sketch interpretato nel film Le bambole (film a episodi del 1965, ndr), quasi scoppiò a piangere nell’aula del tribunale di Viterbo davanti al giudice esterrefatto: «Ma come? Io, che sono un padre di famiglia esemplare? Cosa racconterò adesso ai miei figli? Come giustificherò ai loro occhi questa vergogna?».
Però il suo non è il perbenismo senza sfumature del solito guitto ansioso di rispettabilità e aspirante al titolo di commendatore; è piuttosto la serietà senza umorismo del contadino ancora incredulo e adorante di fronte alla conquistata condizione borghese. «Sono più che serio», insiste. «Far ridere per me non è un istinto, è una grossa fatica. Fisicamente non ho proprio nulla di comico. Ma non vede i miei occhi? Basta guardarli e uno dice subito: accidenti questo, che tristezza ha addosso». Non ha torto, gli occhi sono miopi, la faccia cerea, le labbra sottili. L’aspetto è da impiegato condannato a vita al grado C, da maestro elementare pendolare, da piccolo commerciante di provincia. L’espressione è stordita, smarrita: come di chi si sente perpetuamente inadeguato rispetto alla vita e allarmato di fronte alle sorprese che essa può riservare. Ma, più che la tristezza metafisica del comico, ha addosso il malumore fisico dell’epatico: non a caso soffi-e sin da bambino di una disfunzione biliare e, per questo, non mangia quasi, beve solo acqua minerale, caffè d’orzo e tè leggero, è di carattere nervoso e anche lievemente incline all’ipocondria. Può discutere per ore di problemi igienico-sanitari con il fratello medico, nella sua biblioteca dominano i quattro volumi della Illustrateci Medicai and Health Enciclopedia, alla medicina e alle malattie fa spesso ricorso per paragoni, metafore e illustrazioni del proprio pensiero. Il suo tipo di voce, per esempio? «Chiaramente adenoideo».
L’EMOZIONE NELL’APPRENDERE che il suo film Operazione San Gennaro incassa 2 miliardi di lire solo sul mercato italiano? «Tachicardia, polso clinico, extrasistole e non le dico altro». Il suo giudizio sulla maggior parte degli attori italiani? «Sono come un visitatore, capitato per caso in un ospedale, al quale dicano: “Ehi, vieni qui, devi operare”. E gli mettono il camice, la mascherina di garza, le scarpe di gomma, lo circondano di infermiere, gli passano il bisturi, lo spingono davanti al tavolo operatorio. Lui sta lì, ha tutto l’occorrente e l’apparato giusto, sembra proprio un chirurgo: però non sa fare un’operazione. Così sono gli attori italiani: il fatto di dover recitare li coglie sempre di sorpresa, nel mestiere si sentono sprovveduti e a disagio, non vanno a vedere i propri film, esattamente come un medico bestia non vuoi tornare a visitare il paziente nel timore di trovarlo cadavere. Mai uno che dica: questa parte non la so recitare. Invece si lamentano di tutto, cercano scuse: il regista incapace, il soggetto scemo, la partner prepotente, la produzione cialtrona, il personaggio sbagliato, le mosche, la jella, qualsiasi cosa». Lui invece ha avuto difficoltà reali: «Nel cinema sono stato meno fortunato di altri, anzi Federico Fellini mi diceva: “Nino, sei l’attore più sfortunato che io conosca”. Non mi è mai capitato di lavorare con lui, ne con Pietro Germi, con Vittorio De Sica, con Mario Monicelli, insomma con registi che potessero valorizzare veramente le mie qualità. Non per fare paragoni cretini, ma guardi invece la fortuna di Marcello Mastroianni». La mancanza di aggressività e la malinconia fisica sembravano relegarlo a ruoli di antagonista o di caratterista. Come protagonista, pareva potesse essere impiegato solo nella breve misura di uno sketch. Ne ha interpretati molti, spesso collocato in situazioni triviali che rendevano più comica la sua fissità e la sua tristezza dolente: in mutande e in preda a improvvisa follia da cocaina, in mutande e in preda a impaziente e frustrato trasporto coniugale, in mutande intento a sedurre frettolosamente una eccentrica intellettualoide, senza mutande e tutto insaponato intento a vagare per le scale di un palazzo molto popolato. Le occasioni buone le aveva avute in Camping diretto da Franco Zeffirelli, ne L’impiegato di Gianni Puccini, in A cavallo della tigre di Luigi Comencini: ma i tre film hanno avuto poca fortuna. La popolarità di Manfredi restava legata, implacabilmente, al maledetto ciociaro televisivo e al suo slogan «fusse che fusse la vorta bbona», antenata di «ecquequa» e di «soprassediamo». Ma adesso, a 47 anni: «Finalmente è il momento mio». Adesso, elenca con orgoglio, gli incassi di Operazione San Gennaro gli confermano che ha finalmente un successo popolare; diventa protagonista de Il padre di famiglia; Dino De Laurentiis gli propone un bellissimo film americano; Gerard Oury lo vuole accanto a Jean-Paul Belmondo, Bourvil (Andre Robert Raimbourg, ndr) e David Niven per il suo film Il cervello (Manfredi non entrò poi nel cast, ndr).
INTANTO I COMICI che sino a ieri hanno dominato il mercato, guadagnato moltissimo e girato anche cinque film all’anno, non trovano scritture, non sanno cosa fare, si sentono tremare la terra sotto i piedi. Alberto Sordi annaspa cercando nuovi appigli nella realtà contemporanea, ricade nell’irrealtà del 1956 e non fa più ridere. Vittorio Gassman torna a Shakespeare e affonda in un rancore universale. Ugo Tognazzi, perduta ogni speranza di interpretare il prossimo film di Fellini (Il viaggio di G. Mastorna, mai girato, ndr), si rassegna alle “partecipazioni speciali”, torna cioè alle parti di fianco: l’ultima che ha accettato è anche muta. «Gli attori che una volta erano comici son diventati seri», spiega il regista Luciano Salce, «è un’evoluzione naturale della carriera: invecchiando si è sempre meno divertenti e si ha sempre meno voglia di ridere. Per di più il pubblico è stanco della cosiddetta satira di costume, e un nuovo tipo di comicità non si trova. La crisi è anche produttiva: ogni film viene realizzato ormai per il mercato internazionale, deve piacere in America e in Persia, a Tokyo e a Palmi in Calabria. Se gli italiani possono ridere vedendo Jerry Lewis o Louis de Funès, la cui comicità è fatta di mimica e dinamismo, la comicità italiana basata sulla beffa delle caratteristiche regionali, sulle imitazioni dialettali e sulla riproduzione dei difetti nazionali è invece difficile da esportare. Rimarrebbe il mercato interno: ma come battere gli insuperabili Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, le loro farse sguaiate e travolgenti, i miliardi che incassano, la loro popolarità da lungo tempo stabilita e recentemente rinfrescata dalla televisione?».
In piena crisi del comico, l’unico a salvarsi è Manfredi: «Perché io non mi sono lasciato travolgere dall’ondata della pernacchia», dice lui. «Ho preferito sfruttare le mie qualità, che sono, me lo lasci dire, la fantasia, la grazia e la misura». «Perché Manfredi è un comico fine, astratto; ha un suo mondo intellettualistico, molto surreale e poetico, che il pubblico non conosce ancora», aggiunge il regista Elio Petri. «Perché Manfredi non è un comico, ma un attore», sostiene la regista Lina Wertmüller, che, con Questa volta parliamo di uomini, nel 1965, gli ha fatto vincere il Nastro d’argento. «Anzi», precisa il regista Nanni Loy che, con Il padre di famiglia, lo ha portato alla Mostra di Venezia, «direi che Manfredi è un attore frenato dalla volontà di fare il comico, condizionato da quella voglia di comunicare con il pubblico che in Italia si realizza quasi esclusivamente attraverso la risata. Al contrario di altri comici, Manfredi non è cattivo, non è violento, non è esuberante, non è beffardo, non ha un umore diretto né una vis comica aggressiva, non è un vincitore. Tutti vantaggi, ora che la prepotenza scenica non è più necessaria: mentre diventano indispensabili una gamma di espressioni più sottile, una recitazione meno evidente e sfacciata, un atteggiamento quasi dimesso».
«Il talento di Manfredi è una immensa pazienza», dice Luciano Salce. «Alla lunga è quello che da i migliori risultati. Il cinema non si può fare con l’estro ma solo con la pignoleria. Manfredi è testardo nel valorizzare se stesso, si costruisce pezzetto per pezzetto: con una diffidenza da contadino, una cura dei dettagli che lo fa passare per uno scocciatore». Non solo: anche rompiscatole, pignolo, maniaco, nevrotico, puntiglioso, cavafiato. La prima cosa che si sente dire dalla gente di spettacolo è questa: «Manfredi?
Bravo, simpatico. Ma che rompiscatole». Esaspera gli sceneggiatori con proposte di revisioni, riscrittura di battute, introduzione di idee, discussioni senza fine sul personaggio. Tormenta i registi: non è mai contento, ripeterebbe cento volte la stessa scena, vuoi sempre ricominciare da capo. Tra lui e gli operatori si scatenano battibecchi stizzosi: «Che obiettivo hai messo?». «E a tè che importa?». «Mi importa sì, devo sapere se sono in primo piano perché allora accentuo il gioco mimico facciale, devo sapere se sono inquadrate anche le mani per non lasciarle lì come due prosciutti appesi al gancio, devo sapere se recito solo con il viso oppure anche con le braccia, il torace e i piedi». «Ma perché non la pianti e non reciti come ti viene?». «Che vuoi dire come ti viene, cosa credi, che recitare sia una funzione dell’organismo?».
A FILM FINITO considera tutt’altro che terminato il suo lavoro: vuoi assistere al montaggio, suggerisce tagli, segue il doppiaggio, interviene a proposito del commento musicale, controlla i rumori, se capita dà anche il suo parere sui titoli di testa, di notte fa la ronda per le vie studiando l’effetto dei cartelloni pubblicitari. Tra l’altro, è impossibile levarselo di torno imbrogliandolo, perché del cinema sa tutto. Sa adoperare la macchina da presa, per anni ha girato i suoi film privati e sperimentali; si era comperato una moviola, a casa montava questi suoi film cercando un ritmo nuovo, immagini inconsuete, così sa pure che cos’è il montaggio. Conosce la tecnica del doppiaggio, per dieci anni ha doppiato molti attori americani. Sa a memoria intere sequenze di film famosi: «Per capire il segreto di una scazzottata o il motivo di una scena sbagliata». Ha letto manuali teorici, saggi estetici, enciclopedie. E perfino di musica s’intende, essendo stato da ragazzo brillante suonatore («a orecchio, però») di mandolino e poi di banjo, con irritazione del padre sottufficiale di polizia che il banjo glielo ruppe anche in testa. Se deve inventare una macchietta per la radio ascolta per 40 giorni tutti i programmi: alla fine scopre che in un dialogo radiofonico si notano solo le dissonanze e dà al suo personaggio una vocetta stridula che ne fa il successo. Corrado gli chiede di partecipare al quiz tv Su e giù, rassicurandolo: «Basta che tu venga un’ora il giorno in cui registriamo». Neanche per sogno, rimbecca lui, come può trovare le battute giuste e il giusto tono per pronunciarle se non conosce la trasmissione? E va alle prove per tre giorni: puntualissimo e spesso solitario, dato che tutti arrivano in ritardo: «Lo sa che mi guardano come un pazzo, che mi danno del rompiscatole anche apertamente? Mentre io faccio il minimo che possa fare un professionista serio per salvarsi dalla cialtroneria». O magari, dice Comencini, per soffocare con lo zelo la paura di non farcela. «Certo che ho paura. Sono pavido almeno quanto sono presuntuoso. Ho una paura tremenda. Altrimenti perché avrei aspettato tanto prima di dirigere un film, dopo aver dato il mio esame di regia?». L’esame è uno sketch che ha girato come regista cinque anni fa: tratto da un racconto di Italo Calvino, Avventura di un soldato, completamente muto, molto bello e assai lodato dalla critica. Rincuorato dal successo, adesso l’attore si prepara a dirigere un intero film.
Con prudenza: «Il pubblico è uno strano animale, per tirartelo dietro gli devi dare uno scherzo e una parolina seria, uno scherzo e una parolina seria». La parolina seria sarà la sua regia (Per grazia ricevuta, 1970) : la storia di un bambino miracolato che diventa un uomo dalla psicologia distorta e dall’esistenza rovinata, un cinico che cerca Dio solo per presentargli il conto della propria infelicità. Lo scherzo invece è rappresentato dal personaggio che interpreterà nel film di Dino Risi (Straziami ma di baci saziami, 1968, ndr). Un personaggio forse non nuovo, ma di effetto collaudato: un ciociaro. Non barista, però. Barbiere.