Leonardo Maugeri, L’Espresso 19/4/2013, 19 aprile 2013
ECCO COME SI FA L’ESAME AI MINISTRI
Non molto tempo fa, un mio amico è stato nominato ministro dal presidente Obama. Trovandomi a cena a casa sua per festeggiare l’evento, mi ha spiegato l’ordalia a cui è sottoposto chiunque venga nominato a una carica pubblica anche del più basso livello negli Usa.
Ben prima che la sua nomina fosse ufficializzata, i servizi di sicurezza interni erano piombati a casa sua e l’avevano rivoltata alla ricerca di dettagli compromettenti. Lui e sua moglie avevano dovuto firmare decine di moduli, dichiarando chi erano gli amici con cui intrattenevano rapporti più frequenti, ogni quanto li incontravano, se avessero conoscenze che ritenevano "compromettenti", dove si recavano in vacanza e con chi, appartenenza a associazioni, se avessero una colf, rapporti con società private e pubbliche, con Stati stranieri.
OGNI CONTO BANCARIO, transazione economica, fonte di reddito e dettaglio patrimoniale era già stato esaminato al microscopio, andando a formare un altro corposo dossier che si aggiungeva a quelli già raccolti sulla base di informazioni riservate già disponibili presso varie agenzie pubbliche. Stessa sorte è stata riservata alla figlia (e al di lei marito) del "nominato", mentre gli "amici" più intimi se la sono cavata con un lungo interrogatorio. Tutto il materiale raccolto è stato poi inviato al comitato del Senato che avrebbe dovuto interrogare la persona in questione in più sedute pubbliche, fino a decidere se confermare o rifiutare la nomina. Nel passato è successo spesso che un ministro "nominato" non abbia potuto assumere l’incarico per una clamorosa bocciatura da parte del Senato, dovuta anche ad aspetti marginali della sua vita passata, come contributi non versati alla colf o vacanze pagate da personaggi sospetti.
Si dirà che l’America ha una morale infarcita di contraddizioni assurde: un ministro può perdere il posto per non aver pagato i contributi alla colf, ma un ragazzo può girare carico di armi e fare una strage. È vero: queste contraddizioni fanno parte degli estremi inconciliabili che caratterizzano il Dna di questo Paese.
Resta il fatto che la moralità pubblica è un fatto serio, e quantomeno esistono processi di selezione per la classe dirigente. Non solo. Chi è scelto per una carica pubblica ha tutte le competenze per occupare quella posizione, non è un "generico" imposto dal partito o dal presidente di turno. Non esiste un ministro della Giustizia o della Difesa che, fino al giorno prima, avesse fatto mestieri che niente avevano a che fare con giustizia o difesa. Per chi non rispetta questi requisiti, le cariche pubbliche sono inaccessibili: in ogni caso, hanno sempre enormi spazi nel privato per dimostrare il loro valore.
L’Europa in genere è molto meno rigida degli Stati Uniti nel selezionare la sua classe dirigente pubblica, ma è altrettanto rigida quando si tratta di sanzionarne comportamenti inopportuni. In Germania i ministri si dimettono per aver solo in parte plagiato, in gioventù, tesi di dottorato; in Gran Bretagna sono costretti a lasciare la carica per non aver pagato una multa o aver scaricato sui contribuenti il costo di un film visto in albergo.
IN ITALIA, TUTTO QUESTO è bollato come "moralismo" o "giustizialismo" fanatico. La litania degli anti-moralisti va ben oltre, assumendo come fatti normali della vita i tanti conflitti di interesse, l’ineleggibilità dei candidati, le vacanze pagate a ministri e grand commis, un certo livello di corruzione (in fondo, serve a oliare il sistema, no?), l’interesse privato in atti d’ufficio, le assunzioni di parenti e amici, le doppie (e triple) cariche. Possibile che l’Italia abbia ragione e tutti gli altri torto?