Edward Jay Epstein, la Repubblica 19/4/2013, 19 aprile 2013
IL PROFESSOR NABOKOV QUELLE LEZIONI SUL FASCINO DELL’ADULTERIO
Capitai nel corso Lit 311 all’inizio del mio secondo anno alla Cornell, nel settembre 1954. Non avevo alcun interesse per la letteratura europea o la letteratura in genere: ero semplicemente alla ricerca di un corso che si tenesse lunedì, mercoledì e venerdì mattina, così da non dover frequentare alcun corso di sabato. “Letteratura” oltretutto soddisfaceva uno dei requisiti obbligatori per laurearsi.
Il nome ufficiale del corso era “Letteratura europea del XIX secolo”, ma ufficiosamente era chiamato
Dirty Lit (letteratura oscena) dal Cornell Daily Sun,
perché si occupava di adulterio in Anna Karenina e Madame Bovary.
Il docente era Vladimir Nabokov, un esule russo. Alto circa un metro e ottanta e quasi del tutto calvo, se ne stava con un portamento aristocratico sul palco della sala conferenze di Goldwin Smith. Di fronte a lui sul palco c’era sua moglie Vera, con i capelli bianchi, che egli presentò soltanto come “l’assistente del mio corso”. Fin dalla prima lezione fece intendere di avere scarso interesse a fraternizzare con gli studenti, che sarebbero stati identificati non col cognome, ma con il numero del posto a sedere occupato. Il mio era il 121. Disse che l’unica regola da rispettare era che non potevamo abbandonare la lezione senza prescrizione del medico, neppure per servirci del bagno.
Descrisse i requisiti che esigeva per la lettura dei libri assegnati. Disse che non dovevamo sapere nulla del loro contesto storico e che in nessun caso avremmo dovuto identificarci con uno dei personaggi, perché i romanzi sono opere di pura invenzione. Gli scrittori, continuò, hanno un unico scopo, uno solo: affascinare il lettore. Di conseguenza tutto quello che ci serviva per apprezzarli, a parte un dizionario tascabile e una buona memoria, era la nostra colonna vertebrale. Ci garantì che gli scrittori che aveva scelto — Lev Tolstoj, Nikolai Gogol, Marcel Proust, James Joyce, Jane Austen, Franz Kafka, Gustave Flaubert, e Robert Louis Stevenson — avrebbero prodotto un formicolio che saremmo stati in grado di percepire fin nella nostra colonna vertebrale.
Così il corso ebbe inizio. Purtroppo, distratto da abbuffate, gite al lago, cinema, appuntamenti nei corridoi e altre seduzioni locali di Ithaca, non feci in tempo a leggere niente di Anna Karenina prima che Nabokov ci assegnasse un test a sorpresa. Consisteva nello scrivere il seguente componimento: «Descrivete la stazione ferroviaria nella quale Anna incontrò per la prima volta Vronskij».
All’inizio mi sentii fortemente in difficoltà, perché non avendo letto il libro non avevo idea di come Tolstoj avesse descritto la stazione. Ricordavo però la stazione che si vedeva nel film del 1948 nel quale recitava Vivian Leigh. Giacché ho una specie di memoria eidetica, riuscii a visualizzare una Leigh dall’aspetto vulnerabile che vagava per la stazione in un abito nero, e volendo riuscire nell’esame, descrissi con grande precisione tutto ciò che si vedeva nel film, dall’ambulante barbuto che vende tè portando in giro un pantano samovar di rame alle due bianche colombe che in pratica nidificano sulla sua testa. Soltanto dopo l’esame venni a sapere che molti dei dettagli del film che avevo descritto non erano presenti nel libro. Evidentemente, il regista Julien Duvivier aveva avuto alcune idee tutte sue. Di conseguenza, quando Nabokov chiese al “numero 121” di recarsi nel suo ufficio dopo la lezione, mi aspettai di aver fallito o di essere cacciato da Dirty Lit.
Ciò di cui non avevo tenuto conto era la teoria di Nabokov secondo cui i grandi scrittori creano immagini nelle menti dei loro lettori che vanno molto oltre ciò che descrivono a parole nei loro libri. In ogni caso, dato che presumibilmente ero stato l’unico ad affrontare quell’esame a conferma della sua teoria, descrivendo ciò che nel libro non c’era, e dato che a quanto pareva del film di Duvivier egli non sapeva nulla, non solo mi diede l’equivalente in cifre di un “A” [un 30/30, NdT], ma mi offrì anche un lavoretto, di un giorno solo alla settimana, come “assistente ausiliario al corso”. Sarei stato pagato dieci dollari alla settimana. Stranamente, il mio lavoro aveva a che vedere con i film. Ogni mercoledì cambiava la programmazione dei quattro cinema in centro a Ithaca che Nabokov chiamava “il vicino vicino”, “il vicino lontano”, “il lonciuto vicino” e “il lontano lontano”. Il mio compito, che implicava di spendere buona parte del mio salario settimanale, consisteva nel vedere tutti i quattro film appena usciti al mercoledì e al giovedì, e nel riferirgli brevemente in merito il venerdì mattina. Disse che tenuto conto che aveva tempo per vedere un unico film, il mio briefing lo avrebbe aiutato a decidere quale andare a vedere, se mai ci fosse andato. Era il lavoro perfetto per me: sarei stato pagato per andare al cinema.
Nei due mesi seguenti filò tutto liscio. Avevo recuperato l’arretrato dei libri da leggere, e mi piacevano molto gli appuntamenti del venerdì mattina con Nabokov nel suo ufficio al secondo piano di Goldwin Smith. Quantunque di rado superassero i cinque minuti, erano sufficienti a farmi invidiare dagli altri studenti di Dirty Lit.
Di solito Vera se ne stava seduta dirimpetto a lui, dall’altro lato della sua scrivania, dandomi l’impressione di aver interrotto un loro prolungato appuntamento di studio. La mia rovina arrivò subito dopo la sua lezione sulle Anime morte di Gogol.
Il giorno prima avevo assistito a La donna di picche,
un film britannico del 1949 basato sul racconto del 1833 di Alexander Pushkin. Era la storia di un ufficiale russo che, smanioso di vincere a carte, provocava la morte di un’anziana contessa russa nel tentativo di carpire il suo metodo segreto per scegliere le carte al gioco del faro. Nabokov pareva poco interessato a quanto gli raccontavo della trama, che doveva conoscere bene, ma drizzò la testa non appena conclusi dicendo che il film mi ricordava le Anime morte.
Anche Vera si voltò a fissarmi. Guardandomi insistentemente egli mi chiese: «Perché lo pensi?».
Mi resi conto all’istante di aver fatto un’osservazione collegata, a quanto pare, a un’idea che doveva aver avuto lui o che stava ancora mettendo a fuoco al riguardo di quei due scrittori russi. A quel punto avrei dovuto andarmene dal suo ufficio, accampando la scusa di dover riflettere maggiormente sulla sua domanda. Invece, in modo patetico, risposi: «Sono entrambi russi». Lasciò cadere gli occhi e Vera si rigirò per guardarlo in volto. Anche se il mio incarico si protrasse di molte altre settimane, non fu più la stessa cosa.
Traduzione di Anna Bissanti From
The New York Review of Books.