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 2013  aprile 19 Venerdì calendario

LO STUPORE DEL GIURISTA CANDIDATO “HO PRESO 32 VOTI IN PIÙ DEL PREVISTO”

ROMA — «Rodotà, duecentoquaranta » annuncia la presidente Boldrini nell’aula dove ancora rimbombano i colpi dei 151 franchi tiratori che al primo scrutinio hanno abbattuto la candidatura di Franco Marini. «Ro-do-tà, Ro-do-tà», gridano in piazza Montecitorio. Ma Rodotà dov’è, cosa fa, cosa dice? E’ da tutt’altra parte, in uno studio Rai: per farsi intervistare da Paolo Mieli sul rapporto tra Internet, la democrazia e i diritti delle persone, ovvero quello
che negli ultimi quindici anni è diventato il suo pane quotidiano. E la sua candidatura? Su quella non vuol dire nulla, o quasi. «Non mi aspettavo questo risultato ammette - perché i numeri sono andati al di là delle mie previsioni e credo che questo qualcosa voglia dire. Mi aspettavo i voti del Movimento 5 Stelle e di Sel, ma se ho fatto bene i conti ne ho ottenuti 32 in più...». E quei 32 voti in più venivano di sicuro da quei grandi elettori del Pd che lo avrebbero voluto come candidato ufficiale del partito, al posto di Marini. Ma lui che in Parlamento c’è stato per quindici anni, partecipando alle elezioni di due capi dello Stato e mancando per un soffio l’elezione a presidente della Camera, sa bene quanto la prudenza, in questi casi, sia la virtù più preziosa. «Ora non so che cosa possa accadere, bisogna attendere domani. Non credo di dover dire nulla, se non ringraziare chi mi ha votato e coloro che sostengono la mia candidatura».
Comunque vada a finire, lui ne uscirà con la soddisfazione di essere votato da un Parlamento di cui non fa più parte, messo in campo da un partito che non è nemmeno il suo. E anche se il suo stile gli detta regole diverse da quelle che hanno fatto dire a Beppe Grillo che «alla notizia Rodotà era felice come un bambino», quella candidatura deve avergli dato un’emozione almeno pari a quella che provò a 26 anni trovando nella prima pagina del “Mondo” l’articolo che, speranzoso, aveva mandato a Mario Pannunzio. Il giovane Rodotà, arrivato a Roma dalla Calabria per studiare legge in quella facoltà che poi gli avrebbe dato la cattedra di ordinario, non immaginava che intrecciando settimana dopo settimana - prima sul «Mondo», poi su «Panorama» e infine su «Repubblica » - la riforma del diritto e le utopie della politica avrebbe disegnato un’originalissima figura: quella del giurista che diventa opinion maker.
Negli anni in cui bisognava andare controcorrente, per evocare i tre articoli della Costituzione (41, 42 e 43) che parlavano della prevalenza dell’«interesse
generale» sulla proprietà privata e della sua «funzione sociale», Rodotà faceva parte - con Galgano, Lipari, Irti, Rescigno, Barcellona e Berlingieri - di quel gruppo di giovani studiosi di diritto civile che lo facevano, da un convegno all’altro. Fu lui nel 1964 a teorizzare la «funzione sociale del contratto», che era una tutela ante litteram dei consumatori, e da allora ha sempre esplorato le nuove frontiere, prima del diritto civile e poi - a partire dagli anni Settanta - dei diritti di libertà. Fino a diventare, nel 1997, il Garante della Privacy, dove ha dato una dimensione istituzionale alle sue intuizioni giuridiche sull’informazione come bene tutelato, le stesse che oggi lo spingono a battersi per un «Internet Bill of Rights» e a chiedere l’aggiunta di un nuovo articolo alla Costituzione: «Tutti hanno eguale diritto di accedere alla Rete Internet».
Tra la partenza e il traguardo ci sono stati 15 anni di vita politica. Radicale in gioventù con Pannunzio, nel 1979 accettò dal Pci la candidatura come «indipendente di sinistra», entrando nella formazione di cui quattro anni dopo diventò il capogruppo. L’«indipendenza» finì insieme al Pci, e Occhetto volle che fosse proprio Rodotà il presidente del nuovo partito, il Pds. Gli ex comunisti, però, non l’hanno mai considerato davvero uno dei loro: quando si trattò di eleggere il successore di Scalfaro alla presidenza della Camera, per esempio, lui era il favorito ma il partito gli preferì Napolitano. E così lui è tornato sul suo terreno preferito, il diritto. Perorando cause che poi sarebbero state fatte proprie da Grillo, come quella per il «reddito di cittadinanza» o per il referendum sull’acqua pubblica. E dev’essere nato da lì il feeling con il Movimento 5 Stelle, che a sorpresa lo ha messo ai primi posti delle sue Quirinarie, passando sopra i severi giudizi che Rodotà dava solo pochi mesi fa su Grillo (e che l’ex grillino dissidente Giovanni Favia ha rispolverato ieri, postandolo sul suo blog). «Il fatto che Grillo dica che sarà cancellata la democrazia rappresentativa perché si farà tutto in Rete - diceva il professore in un’intervista a “Left” - rischia di dare ragione a coloro che dicono che la democrazia elettronica è la forma del populismo del terzo millennio. (...) Poi si scopre che Grillo al Nord dice non diamo la cittadinanza agli immigrati, al Sud che la mafia è meglio del ceto politico, allora vediamo che il tessuto di questi movimenti è estremamente pericoloso». Una perfidia, certo: ma la Rete, quella Rete studiata da Rodotà e adorata da Grillo, è fatta anche di questo.