Mattia Feltri, La Stampa 19/4/2013, 19 aprile 2013
L’ETERNO SCILIPOTISMO DI UN PARLAMENTO CHE NON CAMBIA MAI
È cambiato tutto ma non è cambiato nulla: i parlamentari nuovi sono sessantacinque su cento, ma la l’aria che tira e la ciccia che si mastica sono sempre quelle lì. Tira uno scilipotume, un vento di commedia nei corridoi e nell’aula a spazzare via le pretese di sacralità che l’elezione del presidente della Repubblica si porterebbe dietro. E infatti ogni destino ha coronamento quando, durante lo spoglio del secondo voto, la presidente Laura Boldrini legge il nome di Rocco Siffredi, e l’aula accoglie l’imprevista e lucignolesca candidatura con un applausino breve, eppure l’unico della giornata. Quasi un piccolo sfogo. È in quel preciso momento che la giornata si compie. Una giornata dall’andamento allucinogeno per la quale nessun epitaffio sarebbe sufficiente. Nemmeno quello pregevole di Benedetto Della Vedova, l’ex finiano stupefatto dallo straordinario risultato raggiunto dal Pd che col suo campione, Franco Marini, è riuscito nel miracolo di frantumare sé stesso e ricompattare Lega e Pdl: «Come fare autorete su calcio di rigore». Volendo, questa pagina diverrebbe una spoon river di dolore e incredulità. Ma basta forse Giancarlo Galan, con la spilla di Forza Italia all’occhiello: «Che tristezza vedere quel che resta del glorioso partito comunista incapace persino di controllare metà di quelli che ha appena nominato».
Il dubbio che Pierluigi Bersani non ce la facesse aveva dato il buongiorno a tutti i convenuti a Montecitorio, mentre giravano il caffè. Ma era un dubbio dei soliti, fondato sui franchi tiratori che spuntano a ogni giro di giostra, a minacciare la riuscita fino all’ultima scheda. E non era certo il contabile sommo del berlusconismo, Denis Verdini, a sospettare una simile Caporetto. Nel cortile ragguagliava i colleghi di centrodestra su somme e sottrazioni e variabili, per cui alla fine dell’equazione il povero Marini avrebbe potuto sopportare fino a 177 palle di cecchino e spuntarla comunque. Il rendiconto di Verdini tranquillizzava un po’. Così come certe scenette dalle parti dei democratici, con l’inesauribile Dario Franceschini a sgobbare per la causa: prima su un divanetto, perentorio, a spiegare a Pippo Civati che non si scherzava; poi dietro a un angolo con Matteo Orfini, né più né meno. E i cronisti compresi i solitamente bene informati - contenevano le loro previsioni dentro una forbice che andava da «ha già perso» fino «ha già vinto», e a spoglio non ancora cominciato. La sfiancante opera di vaticinio spingeva qualcuno a sostenere una tesi e l’opposta a trenta secondi di distanza, in base all’interlocutore. Il solito infinito mondo ripiegato su sé, impantanato in decine di foglietti da guerra navale, nei quali si segnavano scrupolosamente le intenzioni di chiunque, compresi i cinquantotto delegati regionali. Roba da perdere il bene della ragione.
In una nebbia del genere, il lampo è arrivato da Sandro Bondi - finalmente un guizzo dell’anima e del sangue - quando ha incontrato Guido Crosetto (ex Pdl, ora segretario di F.lli d’Italia), responsabile di aver dileggiato lui e la fidanzata-senatrice, Manuela Repetti: «Vergognati, pezzo di m...». E Crosetto niente: «Preferisco non dire nulla», ha risposto. Il resto era quello che si è detto. Financo Rocco Casalino - che gli amanti dei reality show ricordano nella prima edizione del Grande Fratello, e adesso è portavoce dei cinque stelle transitava altissimo e altero, una visione di vanità quasi finiana. Era ancora il momento della speranza. Angelino Alfano in aula si abbracciava con Bersani, lo stesso faceva Verdini con Monti prima di esibirsi in cordialissimo colloquio con Ugo Sposetti (ex tesoriere dei Ds), il quale si accomiatava sorridente: «Sei riuscito a fare i soliti danni». Altro che danni: si sarebbe visto. Ed erano danni a pensarci ora prevedibilissimi viste le categorie rimesse in campo nei conciliaboli robotici: i dalemiani di qui, i veltroniani di là, e poi i bindiani, i famosissimi giovani turchi, ognuno con uno sbocco sicuro. E poi i bersaniani. Da non credere: i bersaniani la cui evaporazione sta tutta nella strabiliante ammissione della giovane Alessandra Moretti (portavoce del segretario durante le primarie): «Ho votato scheda bianca».
A metà del primo spoglio si è capito come sarebbe andata a finire. Si era lì a giocherellare con le preferenza date al grande Franco Cardini (medievista fiorentino), quella irriverente al conte Mascetti, e cioè Ugo Tognazzi in «Amici Miei», quella all’eccellente costituzionalista Augusto Barbera, votato dal professor Antonio Martino. Quella a Marini, intesa Valeria. Ancora qualche minuto e il gioco di società si sarebbe tramutato in un tafferuglio cerebrale. Non c’era prospettiva trascurata: i politici ne delineavano dopo fitti conciliaboli coi giornalisti, ci si immaginava Massimo D’Alema sul colle con Gianni Letta segretario generale e il nipote Enrico a Palazzo Chigi, anzi no, Stefano Rodotà al Quirinale e di conseguenza Matteo Renzi al governo, e così via, in uno scialacquio di energie mentali. E poi dietro a una colonna si intuivano Giorgia Meloni e Ignazio La Russa, in una stanzetta erano rinchiusi Silvio Berlusconi e Pierferdinando Casini, da un pertugio spuntavano Giuseppe Fioroni e Maurizio Gasparri: una serie di rapporti contro natura buoni ad alimentare il delirio. Tutto rinviato naturalmente. Tutto da rifare stamattina e oggi pomeriggio, come annunciava il surreale spoglio serale della povera Boldrini: si votavano Mussolini (senza nome, ognuno ci metta quel che preferisce), Gianni Rivera, Giovanni Trapattoni, Sofia Loren. Scilipotianamente parlando.