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 2013  aprile 16 Martedì calendario

«QUANDO CREAMMO IL MULINO BIANCO TRA LE BRIGATE ROSSE»

«C’erano le Brigate ros­se, la crisi del petro­lio e le lotte sindaca­li. L’Italia attraversava un momento difficile, forse ancor più di quello attuale e noi creammo il marchio del Mulino Bianco. Un marchio ispirato a principi positi­vi, alla fiducia e all’ottimismo. Principi che oggi i politici non sanno trasmettere». Anche se il termine non gli piacerà, France­sco Alberoni è l’ideologo della fi­losofia Barilla, eminenza grigia di tanti successi e consigliere di Pietro, il nipote del fondatore. Al punto che, oggi che compirebbe un secolo, ha pubblicato con Riz­zoli una biografia del grande imprenditore scomparso il 16 settembre 1993.
Più che una biografia la sua è un’intervista non troppo im­maginaria.
«È un libro che ha la struttu­ra del dialogo tra due vecchi amici. Gli faccio raccontare degli episodi, cominciando dagli anni ’50, quando lo co­nobbi. O quando andò in Ger­mania per comprare tre mac­chinari e tornò che ne aveva comprati sette. Poi andò in America... ».
Come definirebbe il vostro rapporto?
«Sono stato un loro consi­gliere in tante vicende. L’ho fatto anche con altri, ma nel caso di Pietro si è stabilito un rapporto sincero e affettuo­so. Infatti il libro è dedicato “a un amico”».
La Barilla era un’azienda d’impronta familiare. Co­me divenne un marchio mondiale?
«La Barilla era importante già negli anni ’30. Pietro considerava la pasta il cuore del­la cucina italiana. A Pedrigna­no c’era il più grande pastifi­cio del mondo. Poi venne la svolta della comunicazione».
Si decise di coinvolgere Mi­na.
«Lei portò un’immagine di essenzialità e qualità: la pa­sta era la regina della nostra cucina. “Dove c’è Barilla c’è casa”: in fondo comunicava­no loro stessi. Diventò un mar­chio inconfondibile che espri­meva il nostro essere italiani. Un po’ come la Ferrari. Infat­ti, si frequentavano molto».
Chi ideava gli slogan?
«Pietro ha sempre avuto ot­time agenzie. Ricordo una vol­ta che non era convinto di una campagna, telefonò a Fel­lini che gli mandò un film in cui una raffinata signora en­trava in un elegante ristoran­te con uno chef che magnifica­va una serie di piatti parlando francese. Ma alla fine la sofi­sticata signora ordinava degli italianissimi rigatoni. La pa­sta era un cibo nobile. Poi arri­vò Gavino Sanna, la bambina con l’impermeabile giallosal­vava il gattino...».
Un successo basato su slo­gan sentimentali?
«Pietro non era solo un uo­mo di comunicazione, anzi. Seguiva personalmente tutte le linee di produzione. Sce­glieva i macchinari, si consul­tava con gli ingegneri tede­schi. Credeva molto nella tec­nologia, consapevole che ri­sparmiava fatica e migliorava le condizioni dei lavoratori. Ne aveva visti troppi amma­larsi di polmonite negli essic­catoi... ».
Credeva anche nell’allean­za tra cultura ed economia. Una rarità...
«Per lui un fatto naturale. A Parma ci fu il primo convegno sul neorealismo. Poi ispi­rò La Palatina, la rivista dove scrivevano i migliori autori. Diceva che bisognava prende­re sempre i numeri uno, così non si sbaglia. Frequentava scrittori, registi come Valerio Zurlini. Ma senza snobismi».
Come si comportava in azienda?
«Aveva grande rispetto dei dirigenti: anche se era un’azienda familiare, il pro­prietario non interveniva a piedi uniti. Tranne quando andava a rotoli e bisognava cambiare rotta».
Come avvenne negli anni ’70 quando fu venduta agli americani.
«Non fu lui a volerla vende­re, ma il fratello Gianni che aveva la mentalità del finan­ziere. Per Pietro l’azienda era il proseguimento della fami­glia, una realtà radicata nella città. Ma erano gli anni degli autunni caldi e cedette».
Poi però la ricomprò.
«Andando controcorrente. I banchieri, Cuccia compreso, lo sconsigliavano. Creò una società in cui aveva la pre­si­denza e reinvestendo il pro­fitto tornò proprietario della sua azienda. Eravamo all’ini­zio degli anni Ottanta e la Ba­rilla ebbe il suo massimo sviluppo» .
I banchieri erano scettici an­che allora nei confronti dell’economia reale?
«Non credo si possa genera­lizzare. Cuccia non credeva che la pasta potesse essere un affare. Suo fratello da fi­nanziere l’aveva venduta, lui da imprenditore l’ha ricom­prata. Conosceva le attrezza­ture e sapeva che con una spi­ga di grano si poteva fare for­tuna».