Marco Palombi, il Fatto Quotidiano 17/4/2013, 17 aprile 2013
STEFANO, L’INTELLETTUALE DI MINORANZA
Stefano Rodotà è un uomo dalle molte vite, com’è normale che sia per un intellettuale ottantenne (in realtà li compirà a fine maggio) con una passionaccia per la politica e, dicono gli antipatizzanti, per le cariche istituzionali. Se verrà eletto, sarà il primo capo dello Stato a provenire da una minoranza: Rodotà è infatti un figlio della comunità arbëreshë (italo-albanese) calabrese, la sua famiglia viene da Santo Stefano Ullano, paesino montano in provincia di Cosenza. Provenienza che in parte forse spiega la sua tenace difesa, in ogni fase della sua vita, dei diritti della persona. Laurea in giurisprudenza alla Sapienza di Roma, l’università in cui ancora insegna diritto civile, la sua prima esperienza politica la fa col Partito Radicale di Mario Pannunzio. Col Pr versione Marco Pannella, invece, non s’è mai preso molto: è tanto vero che nella prima delle sue quattro legislature in Parlamento, nel 1979, si fa eleggere da indipendente nelle liste del Pci dopo aver rifiutato a più riprese le offerte di viale Argentina. “Ci eravamo lasciati già 17 anni fa”, gli scrisse acido Pannella in una lettera aperta: “Eravamo dei pazzi, e Stefano era un savio. Siamo dei pazzi, e Stefano si conferma un savio”. Risposta: “Sono probabilmente colpevole d’aver accettato, come Marco scrive, di farmi ‘tranquillamente eleggere deputato indipendente dalla direzione del Pci’, invece che personalmente da lui”.
ALLA CORTE DEL PCI, ha spiegato lui stesso, l’aveva portato Luigi Berlinguer, ma prima di accettare la candidatura volle parlare con Ugo Pecchioli, il “ministro dell’interno” comunista: sui diritti possiamo essere in contrasto, gli disse quello, ma non sulla fermezza (il riferimento era al recente caso Moro). Così Rodotà fu eletto e passò quella legislatura (anche) a combattere contro il cosiddetto “teorema Calogero”, la tesi del giudice di Verona che aveva fatto arrestare tutti i leader di Autonomia operaia da Toni Negri in giù, accusati di essere i veri capi delle Brigate rosse.
Fu rieletto a Montecitorio nell’83, quando fu capogruppo di Sinistra indipendente, nell’87 e ancora nel 1992, quando divenne vicepresidente della Camera e pure uno dei candidati al Quirinale, dove però – al sedicesimo scrutinio – venne eletto Oscar Luigi Scalfaro (con grande delusione del nostro, dicono i soliti cattivi). Nel frattempo Rodotà era diventato il primo presidente del Pds, ovviamente a garanzia delle minoranze interne, e aveva ingaggiato un’aspra battaglia col precedente inquilino del Quirinale, Francesco Cossiga. I due avevano polemizzato su Leoluca Orlando, padre Pintacuda e l’antimafia palermitana e per il picconatore fu guerra aperta: tra le altre cose lo irrise come “leader del proletariato mondiale, campione imperituro del marxismo-leninismo”; “piccolo arrampicatore sociale”; “uomo senza radici, parvenu della politica”. Il giurista , alla fine, se ne uscì con l’unica sua battuta memorabile: “Propongo a Cossiga un accordo: lui smette di dire falsità sul mio conto, e io smetto di dire verità sul suo”. Nel 1994, dopo un quindicennio di politica, Rodotà torna al suo lavoro: insegnerà spesso anche all’estero e, soprattutto, tra il 1997 e il 2005 sarà il primo Garante della privacy italiano (attività per la quale riceverà anche alcuni premi internazionali). Campione di laicità in tema di diritti civili e bioetica – vedasi le sue posizioni su matrimonio gay e fine vita – Rodotà, a differenza di molti altri candidati al Quirinale della lista 5 Stelle, è un prodotto della società civile corretto con una robusta dose di politicismo: sa come muoversi in quel mondo e ha una certa propensione per il potere. Il che non è affatto una critica.