Mario Calabresi, LaStampa 14/4/2013, 14 aprile 2013
L’ULTIMA DOMENICA DI NAPOLITANO "NON MI CONVINCERANNO A RESTARE"
Gli scatoloni con le carte, la corrispondenza e i libri, i tantissimi libri di cui Giorgio Napolitano si circonda e che ama annotare e tenere sulla scrivania, sono già partiti verso la prossima destinazione: lo studio a Palazzo Giustiniani, casa dei senatori a vita, dei presidenti emeriti della Repubblica.
Un trasloco definitivo, senza possibilità di ritorni, mentre già escono volumi che tentano un bilancio del settennato.
Eppure le pressioni si moltiplicano in queste ore per cercare di convincere il Capo dello Stato ad accettare un prolungamento, a restare al suo posto ancora per un anno o due. Richieste che vengono risolutamente rispedite al mittente: «Ora ci vuole il coraggio di fare delle scelte, di guardare avanti, sarebbe sbagliato fare marcia indietro».
Nonostante i faccia a faccia di questa settimana i partiti non riescono a trovare un nome, a identificare una figura credibile, e di garanzia per tutti, che possa sedere al Quirinale per i prossimi sette anni, così si cerca una soluzione di comodo, che l’attuale inquilino però rifugge come «una non soluzione».
In un Paese in cui nessuno vorrebbe lasciare la poltrona Napolitano invece si ritrae, invita a non attribuire «valenze salvifiche» alla sua persona e anzi vive con ansia, quasi con angustia, le continue pressioni. Pressioni che non accetta, specie se accompagnate da una sorta di richiamo a un dovere morale. Il Presidente è certamente grato per tutti i riconoscimenti che gli vengono tributati ma considera il mandato concluso - «tutto quello che avevo da dare ho dato» ripete - anche perché conosce perfettamente la fatica del ruolo, sente il peso degli sforzi fatti e ricorda che a giugno compirà 88 anni.
Per chi ha lavorato per cercare di fare dell’Italia un Paese normale è incomprensibile che non si possa dare una successione ordinata a una scadenza istituzionale prevista, come se non ci fosse nessuno idoneo al compito. C’è poi un’allergia alle «soluzioni pasticciate», a quelle che all’estero definirebbero immediatamente «soluzioni all’italiana», cioè a inventare un prolungamento non previsto dalla Costituzione. Il mandato è di sette anni, ma vale la pena raccontare come siano stati in molti a prospettare una rielezione per un tempo più breve, lasciando all’inquilino del Colle la libertà di decidere poi quando dimettersi. Non è mai successo nella storia della nostra Repubblica e Napolitano non intende certo rompere la regola, ma i più tenaci non demordono sottolineando che viviamo tempi particolari in cui perfino un Papa ha dato le dimissioni in anticipo. «Ma è un esempio che non calza per nulla - ha replicato il Presidente –, perché per un papa non esiste scadenza e così nemmeno anticipo», mentre qui tutto è codificato con chiarezza.
Non basta, ci sono ragioni di principio, di linearità e probabilmente non mancherà anche quel filo di amarezza per non essere stato ascoltato alla fine della scorsa legislatura, quando ha sollecitato mille volte i partiti a non buttare via le intese sulle riforme e a cambiare la legge elettorale. Se gli avessero dato ascolto oggi la situazione sarebbe di certo meno ingarbugliata e difficile.
Così siamo arrivati all’ultima domenica al Quirinale per Giorgio Napolitano, il prossimo fine settimana potrebbe essere già stato eletto il suo successore, nel congedo non ci sono rimpianti perché a prevalere è la convinzione di aver fatto tutto il possibile per tenere in piedi il Paese: il lavoro dei saggi è stato il tentativo «di dare una conclusione seria» al percorso nel momento in cui ci si è trovati di fronte a un muro.
Il Presidente va via senza che si sia formato un nuovo governo, con un termine di mandato «particolarmente impegnativo e faticoso» perché due giri di consultazioni hanno sempre dato lo stesso risultato, confermando posizioni inconciliabili, e perché mandare Bersani davanti alle Camere senza la garanzia di una fiducia sarebbe stato non solo un rischio troppo grande ma anche un azzardo che qualcuno non avrebbe esitato a definire un golpe.
L’alternativa di un governo del Presidente, una soluzione simile a quella trovata nel novembre del 2011 con Monti per evitare una precipitazione drammatica, oggi non è più possibile. Tutto è cambiato, non c’è più un Mario Monti dietro l’angolo e forse l’unica cosa su cui tutti, ma proprio tutti – da Grillo a Berlusconi, da Monti a Bersani - sono stati d’accordo nei colloqui al Quirinale è che ci vuole un governo politico con un eletto a guidare il governo.
Il Presidente ha sotto gli occhi il film dell’ultimo mese e resta convinto che i saggi siano «stati l’ultimo contributo possibile», un contributo che «non andrebbe buttato via» perché ha dimostrato che un dialogo è possibile anche tra persone molto diverse tra loro, che «esistono occasioni di collaborazione» che andrebbero colte al volo. Ma certi processi politici non possono essere imposti da nessun Presidente, spetta ai partiti decidere se collaborare e in che forme e ora toccherà al successore di Napolitano riprendere il filo e trarre le conclusioni di questa fase convulsa.
Al successore, non più a lui, che ora chiede solo di essere protetto da pressioni indebite e ripete di non essere disponibile a soluzioni di comodo apparentemente facili ma poi confuse e pasticciate.
Per la politica è il tempo di avere coraggio, di prendere responsabilità e scegliere. Per Giorgio Napolitano è il tempo del commiato, del ritorno alle aule parlamentari, ai libri, alla musica classica e alla vita privata.
E’ già tutto pronto, tutto è stato ordinato, catalogato e trasferito, restare o peggio tornare indietro «sarebbe ai limiti del ridicolo».