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 2013  aprile 17 Mercoledì calendario

MALEDETTO IL GIORNO CHE TE NE SEI ANDATO


Per raccontare la storia di Tim e Sebastian, partiamo dalla fine. Sebastian Junger, 51 anni, scrittore e documentarista, occhi limpidi, sguardo ruvido, uno dei grandi inviati al fronte di Vanity Fair America, riceve una lettera da un veterano del Viet­nam suo conoscente. «Andando in guerra, uno sa che potrebbe morire. Ma quello che è certo, ciò che la guerra ti garantisce, è che vedrai cadere i tuoi fratelli. Ora tu sai».
Pochi giorni prima, il 20 aprile del 2011, sulla strada più pericolosa del mondo, Tripoli Street, Misurata, Libia, i ribelli sono circondati dalle forze di Gheddafi; nessuno protegge i reporter occidentali. In un pomeriggio di sole, dopo una giornata di proiettili evitati per un soffio, arriva un colpo di mortaio. Tim Hetherington, inglese, quarant’anni, aria da 
attore che non sa di esserlo, alto e ancora più tosto del suo compagno d’avventure Sebastian, uno dei più dotati fotografi di guerra del mondo, muore, assieme al collega americano Chris Hondros. La notizia attraversa il pianeta, raggiunge il suo quasi fratello Sebastian nel centro di New York, in una giornata che, come vedremo, aveva già riservato una terribile esperienza.
Il giorno dopo, Junger si rivolge a lui così: «Parlavamo sempre del rischio, perché era la bella donna di cui eravamo innamorati, giusto?». In tutti i Paesi in cui Hetherington aveva lavorato, dagli ex ribelli in Liberia ai bambini ciechi della Sierra Leone, dai soldati americani dislocati nella terribile Korengal Valley afghana (con loro aveva trascorso quasi un anno 
assieme a Junger) fino alle persone che, come me, l’avevano incontrato per lavoro: per tutti era come se fosse scomparsa la persona diretta nel luogo più importante al mondo, e nell’unico modo possibile. Dentro le emozioni degli altri, fino a farsi travolgere.
Un paio di mesi prima, sembrava un’altra storia. Tim e Sebastian, in smoking, seducenti, accompagnati dalle due splendide compagne e da un paio di soldati americani, si stagliavano con un sorriso sperduto in mezzo alle star sul tappeto rosso del Kodak Theatre di Hollywood. Il loro documentario Restrepo - Inferno in Afghanistan, ricavato con le unghie e i propri risparmi, dall’esperienza tra i Marines sulle montagne dell’Afghanistan, premiato al Sundance, era in lizza per l’Oscar. In mezzo agli attori
si sentivano «importanti come il plancton nella scala alimentare», dichiarava Sebastian.
Non vinceranno. Non importa. Tim, stringendo più forte la fidanzata, Idil, la consolava: «Ho il mio Oscar proprio qui». Per Sebastian, la felicità, breve, sarebbe arrivata dopo. E qui entra in gioco qualcosa di bello e terribile.
A rievocarlo, verso la fine del 2011, a un giornale americano, è sua moglie, Daniela Petrova. «Due settimane dopo la premiazione, ho fatto un test di gravidanza. Due righe rosa. Ho urlato dalla gioia. Sebastian è corso da me. Eravamo increduli per il miracolo successo a Los Angeles». Sei anni sprecati, nel tentativo di vincere l’infertilità con ogni metodo artificiale. Questa volta era incinta in modo naturale.
Hollywood non era per loro. Su Tim e Sebastian pesava il richiamo della Primavera araba. La guerra civile libica: esserci, perché soltanto questo poteva cambiare qualcosa. Vicini ai ragazzi contro Gheddafi, perché erano loro, diceva Tim, «il soft­ware della guerra».
Tim decide di raggiungere la Libia, anche se tutti, a partire dal padre («Sei solo, stavolta»), gli ripetono che è troppo pericoloso. Sebastian vorrebbe andare, ma Daniela aspetta un bambino. Lui non prova nemmeno a discuterne.
Passano settimane, Tim raggiunge Misurata via mare, assieme a un manipolo di altri fotoreporter; oltre a Hondros, premio Pulitzer, diversi giovani, tra cui Guy Martin e Michael Christopher Brown, entrambi feriti dallo stesso mortaio. La moglie di Sebastian sente che il marito vorrebbe essere con l’amico. Lei è in ansia per lui, che è in pena per l’altro.
Mentre Tim raggiunge il fronte, Sebastian accompagna Daniela alla prima visita dal ginecologo. Il dottore, affranto:
«Non sento il battito del cuore». La coppia è devastata. Passa una settimana. Arriva il 20 aprile 2011. È il giorno previsto per rimuovere il feto morto. Escono dall’ospedale come in trance. Raggiungono casa. Suona il telefono. È morto Tim.
È il momento degli «e se?», di bilanci improponibili. Una vita salvata (Sebastian). Grazie a una vita, subito perduta (il figlio). Un’altra (Tim), che forse Sebastian – se soltanto avesse saputo in ritardo della gravidanza – avrebbe potuto proteggere?
Resta la possibilità – quasi il dovere – di conoscere meglio Tim e Sebastian. Un destino che, già all’inizio della carriera di Tim, li aveva visti sullo stesso fronte, nella guerra civile in Liberia, dove si erano sfiorati. Poi, e lì erano insieme, sono arrivate le ispirate fotografie di Tim in Afghanistan. Una, che ritrae un marine distrutto dalla fatica, ha vinto il World Press.
Si può cercare la biografia dedicata al fotografo dal giornalista Alan Huffman: Here I Am («Eccomi», titolo perfetto). Oppure il documentario realizzato da Junger, in memoria della persona con cui aveva sperimentato ciò che sovrasta l’amore, il senso di «brotherhood», la disponibilità a sacrificare il proprio corpo: Which Way Is The Front Line From Here, The Life And Time Of Tim Hetherington, presentato quest’anno al Sundance, con il debutto su Hbo il 18 aprile. In questo titolo, che si può tradurre come il film di Jerry Lewis, Scusi, dov’è il fronte?, c’è l’understatement del fotografo, ma anche la follia di un lavoro che consiste nello svegliarsi ogni mattina, e andare a cercare la battaglia.
Scoprire due adolescenze libere, una in New England e l’altra a Liverpool. Junger, prima di scrivere, farà lavori azzardati, scalerà gli alberi più alti per potarli; Hetherington, laureato in Letteratura, si aggiunge un nome: Telemaco (dall’Odissea). Scompare due anni in Asia, per capire che la fotografia era la sua via verso le emozioni della gente. Il successo: il fotografo è il primo a capire l’importanza di un approccio multimediale; per lo scrittore, un ventennio di fronti caldi e libri importanti, tra questi La tempesta perfetta (da cui hanno tratto il film). La vera passione di entrambi: stare così tanto dentro gli eventi estremi, che nessuno poi li potrà dimenticare.
Un colpo di mortaio ha interrotto la strada di un uomo di coraggio innaturale. Tim, che in Liberia era accorso tra la pistola di un ribelle e il corpo di un medico, sospettato di essere una spia; e in Afghanistan aveva saltellato tutta una notte con una gamba spezzata, 50 chili sulle spalle, per non rallentare il plotone in marcia. Black Diamond, nome di battaglia di un’ex ribelle liberiana, rivive il proprio stupore: «Mi chiedevo, ma che cosa ci fa un così bel giovane, proprio qui, nella gabbia del leone?». La morte di Tim, affrontata da Sebastian come fanno i soldati. «Rimandano le loro reazioni emotive, fino a quando hanno il tempo per viverle. È come con la carta di credito. Paghi dopo, paghi di più». Non tornerà al fronte.