Ziliani, il Fatto Quotidiano 17/4/2013, 17 aprile 2013
ORRICO TORNA IM PANCHINA: “ERA ORA HO ANCORA MOLTO DA DARE AL CALCIO”
Le cose più difficili, adesso, per lui saranno due: riuscire a non fumare il Toscano in panchina (una volta era consentito) e imparare i nomi di giocatori mai visti prima. Giocatori che un tempo si chiamavano Zenga, Bergomi, Berti, Matthaeus, Klinsmann e che oggi si chiamano Lanzano, Fatticioni, Della Latta, Gurma, Lo Sicco. La notizia, comunque, rimane: ieri, nel giorno del suo 73° compleanno, Corrado Orrico (Massa, 16 aprile 1940) è ritornato a fare l’allenatore in Seconda Divisione, per la precisione a Gavorrano, terra di Maremma, provincia di Grosseto. Orrico, che è forse l’uomo più intelligente e colto – e al contempo meno diplomatico – del calcio italiano, ha detto che aspettava la chiamata da tempo perché “il calcio mi manca: ho ancora molto da dargli, io!”. Dal 2009, anno dell’ultima panchina a Prato, Orrico ha passato le sue giornate nella quiete della tenuta di Volpara, tra i boschi sopra Massa, fumando il sigaro, coltivando la terra e concedendosi qualche puntata a Milano per discettare di football negli studi di Sky.
Ma dire Milano, per Orrico, è dire Inter; e riavvolgere il nastro all’indietro, all’estate del 1991, quando il presidente Pellegrini decise di scommettere su di lui, allenatore in B alla Lucchese, per rifondare il club un po’ come aveva fatto Berlusconi, sull’altra sponda, puntando su Sacchi allenatore del Parma. “Sono nello spogliatoio dopo l’allenamento – ricorda Orrico – e qualcuno mi dice che c’è una telefonata del direttore generale dell’Inter. Ora: l’anno prima i miei amici massesi mi avevano messo in mezzo, avevano imitato la voce di Boniperti e mi avevano invitato ad andare a Torino, nella sede della Juve, salvo fermarmi all’ultimo quando ormai ero già al volante. Così penso allo scherzo, vado e rispondo in malo modo. Gelo. Esterno i miei dubbi e allora mi dicono guardi signor Orrico, le diamo il numero della sede, zero due eccetera, ci chiami lei. Era davvero l’Inter. E c’era Pellegrini che mi voleva assumere”. Orrico ce la fa. Anche se rischia subito di andare a sbattere contro lo scoglio-Prisco. “Sono nella hall del Palace, in Piazza della Repubblica, e sto aspettando che mi vengano a prendere. Sto leggendo il Manifesto quando di colpo mi trovo davanti l’avvocato Prisco che mi guarda con due occhi così. Ma lei, mi chiede, legge il Manifesto? Sì gli dico, e allora lui sgrana gli occhi di più e fa: no, guardi che l’allenatore dell’Inter non può leggere il Manifesto! Ah no? E che cosa deve fare, prendere la tessera della P2? Non proprio il massimo, ne convengo. In qualche modo ne usciamo, mi accompagnano da Pellegrini, firmo, ma il presidente mi dice: so che oggi qui si è fatto un nemico. Eh eh!, penso”.
ORRICO non ce la fa, però, a diventare il Sacchi dell’Inter. Resiste 17 partite (tutto il girone d’andata) ma il 19 gennaio, dopo Atalanta-Inter 1-0, gol di Bianchezi su rigore, rassegna le dimissioni. “Esagerai – ammette – Eravamo quarti con una partita da recuperare e non eravamo al dramma: ma sentivo che tutte le componenti desideravano ardentemente che mi togliessi di torno. Così li feci contenti. Tutti tranne il presidente, che provò a trattenermi. Ma un po’ di sfortuna la ebbi. Arrivai nell’anno in cui Matthäus, giocatore enorme, era in viaggio di nozze continuo con quell’elvetica, Lolita, per cui aveva perso il senno, e in pratica fu nullo. E poi Klinsmann: fece 1 gol, fino a che io fui in panchina. Dicesi uno”. Pochi lo ricordano, ma Orrico fu l’inventore della famosa “gabbia” adottata poi da molti allenatori, specie stranieri. Ne è ancora. “Molti ridono, ma tra il gioco del pallone e la geometria dei frattali – ripetizione all’infinito di uno stesso motivo su scala sempre più ridotta – esiste una stretta correlazione. Ebbene, la mia “gabbia chiusa”, in cui obbligavo i giocatori a simulare la partita, con i suoi micro-tempi e la palla sempre in gioco costringeva gli atleti a reiterare gesti e movimenti a grande velocità, di piede e di pensiero, educandoli alla rapidità d’esecuzione. Sono immodesto, ma credetemi: la gabbia fu una grande invenzione”.
Nel 1991 l’Inter gli affidò la mission impossible di porre fine al dominio del Milan berlusconian-sacchiano; oggi, a Gavorrano, il presidente Balloni gli ha chiesto – più modestamente – di mettersi alle spalle, nelle 4 partite che restano, Vigor Lamezia, Hinterreggio e Foligno e arrivare così alla salvezza. È una squadra di bravi ragazzi, gli ha detto per rassicurarlo, ma lui ha storto il naso: “I giocatori più forti che ho avuto – spiega – erano pessimi individui. Non nel senso di delinquenti, ma irascibili, scontrosi, egoisti. Uomini detestabili, ma determinanti in campo: insomma, largo a Balotelli e ai suoi fratelli. I bravi ragazzi io li lascio agli altri. Perché non incidono. Mai”.