Sebastiano Messina, la Repubblica 18/4/2013, 18 aprile 2013
LA PARTITA DEL LUPO MARSICANO PREDILETTO DI DONAT CATTIN MEDIATORE DAL PUGNO DI FERRO
UN APOSTOLO del pragmatismo, certo. Un mediatore prudente che smussa tutti gli angoli. Ma anche un combattente che non le manda a dire. E che non si tira indietro, quando viene sfidato: «E’ uno che uccide col silenziatore», è la celebre definizione che ne diede quarant’anni fa Carlo Donat Cattin. Questo è Franco Marini, l’uomo che nove giorni fa ha compiuto ottant’anni e che oggi potrebbe diventare il dodicesimo presidente della Repubblica.
Moderato fino al midollo, ma per nulla tenero, Marini è un centrista di ferro, un politico dal sangue freddo. Nella Cisl, dove cominciò la sua avventura politica, lo chiamavano «il lupo marsicano», come gli animali solitari che una volta dominavano i monti abruzzesi. Con quel carattere d’acciaio avvolto in una morbida cordialità, con quella sua aria flemmatica da falso pigro, Marini conquistò la Cisl e la “ridemocristianizzò”, dopo l’era del laico Carniti. Passò alla politica sedendosi direttamente su una poltrona di ministro, poi si insediò al comando del Partito popolare e quindi salì sullo scranno più alto di Palazzo Madama. Prima di rimanere fuori, per un soffio, da questo Parlamento, avendo cavallerescamente ceduto il posto di capolista alla matricola Stefania Pezzopane.
Non piacerà a Renzi, e si capisce. A lui, durante la battaglia delle primarie, Marini rimproverò di «disseminare superficialità » e di spandere, con «la sua tournée teatrale», solo «antipolitica» e «populismo sfrenato». Si capisce invece che piaccia a Bersani, che per lui «è un ottimo passista, non si stanca, ha le gambe robuste e i polmoni pure». E si capisce anche che non dispiaccia a Berlusconi, essendosi sempre dichiarato «suo avversario politico, ma senza odio», e avendogli una volta persino riconosciuto «grande coraggio» nella discesa in campo del 1994.
Nella sua vita, Marini ha obbedito solo a tre uomini. A Giulio Pastore, che lo allevò sotto la sua ala. A Carlo Donat Cattin, che lo amava come un figlio, al punto da lasciargli in eredità la sua corrente democristiana, “Forze nuove”. E a suo padre, Loreto Marini, operaio della Snia e fondatore della Cisl. I Marini arrivarono a Rieti da San Pio delle Camere, un paesino abruzzese nella piana di Navelli, e quel ragazzo in gamba fu notato dal segretario della Cisl reatina, Alberto Alunni. Aspettò che finisse il liceo e poi gli offrì, nell’estate del ‘52, un posto all’ufficio contratti e vertenze, 15 mila lire al mese senza contributi. Papà Marini però pose una condizione: «Mio figlio si deve laureare». E così fu. Il giovane Franco metteva la sveglia alle 4 di mattina, studiava fino alle 7 e poi andava alla Cisl a dirimere contenziosi e a spulciare le buste paga dei chimici.
Poi, quando l’ufficio si svuotava, tornava sui libri. «E’ bravissimo, riesce subito a cogliere il punto di compromesso, e dolcemente vi accompagna padrone e mezzadro» diceva il suo capo di allora, l’avvocato Giorgio Rossi. Nel ‘56 la Cisl inaugurò il suo centro studi, «l’università dei lavoratori» la chiamava Pastore. Al primo corso, a Fiesole, si ritrovò un gruppo di promettenti ventenni: c’erano Carniti, Crea, Colombo. E Marini. Il quale, finita la scuola sindacale, fu spedito prima ad Avezzano, poi a Biella e ad Agrigento, prima che Pastore se lo portasse nell’ufficio studi del ministero per il Mezzogiorno.
Cominciò così la lunga arrampicata del Lupo Marsicano, democristiano di fede, sindacalista di mestiere. Prima contro Storti, col quale non legò mai, poi contro Carniti, che si era ripreso il vestito scuro ed era diventato un laico operaista, tutto l’opposto di Marini, democristiano e difensore degli statali. Dopo una paziente attesa, nel luglio dell’85 il figlio del capoturno della Snia diventò segretario generale della Cisl. Ci rimase sei anni, fino a quando, morto Donat Cattin, fece il grande salto verso la politica.
Tenace nella ricerca dell’accordo, ma anche durissimo con avversari e concorrenti, non necessariamente di altri partiti. Sfidò De Mita attaccandolo al congresso dell’84, e fu allora che il segretario fece, tra i fischi e le botte, la più infelice delle sue profezie: «Se continui così, caro Marini, non interesserai più neanche i democristiani». S’è visto. Quando poi decise di candidarsi alle politiche volle sfidare, contro tutti i consigli, il vicerè della Dc romana Vittorio Sbardella. E lo battè (era il 1992) rastrellando 1123 voti più di lui: gli sconfitti, furibondi, diedero la colpa ai postini cislini che avevano recapitato solo dopo le elezioni le lettere elettorali di Sbardella. Credevano che lo Squalo fosse imbattibile. Non conoscevano il Lupo Marsicano.
All’Ulivo non ha mai creduto fino in fondo, preferendogli un centro-sinistra con il trattino e attirandosi i sospetti mai provati e sempre respinti - di aver lavorato all’ascesa a Palazzo Chigi di Massimo D’Alema, anche al prezzo della caduta di Prodi. E’ rimasta agli atti, invece, la sua ira per il mancato rispetto del patto per la successione di Scalfaro: l’accordo con i Ds, giurò lui, era che al Quirinale andasse Rosa Russo Jervolino, e invece all’ultimo momento Veltroni si accordò con Fini e Casini sul nome di Ciampi. «Non sono arrabbiato con D’Alema - si sfogò allora Marini - sono furibondo. Io mi sono fidato di lui, e lui mi ha fregato».
Eletto, sette anni dopo, alla presidenza del Senato contro un centrodestra che pur di fermarlo votò compatto per Andreotti, Marini ha dovuto governare un’aula indisciplinata e ribelle. Un senatore berlusconiano gli tirò contro il libro del regolamento (mancandolo, per fortuna). Un altro, espulso, si rifiutò di lasciare l’aula e vi rimase per dodici ore, circondato dai compagni di partito, arrivando a fare pipì in una bottiglietta. Per non parlare di quelli che stappavano champagne e mangiavano la mortadella, mentre Marini tuonava: «Colleghi senatori, questa non è un’osteria!».
Alla fine, però, a riprova dell’imparzialità dimostrata, Marini si vide affidare dal Quirinale un mandato esplorativo. Al quinto giorno si arrese, «con molto rammarico per l’impossibilità di raggiungere l’obiettivo», e restituì la patata bollente di quella crisi a Napolitano. Che adesso, cinque anni dopo, potrebbe restituirgliela: franchi tiratori permettendo.