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 2013  aprile 14 Domenica calendario

QUANTI DISSIDENTI ALLA PORTA. DAI «PIDOCCHI» DI TOGLIATTI ALLA CACCIATA DI FINI E FAVIA

«Mi abbaia sempre, la maledetta!», rise un giorno Roberto Calderoli, spiegando perché col cognato Luigi Negri (deputato) e la cognata Elena Gazzola (assessore a Milano) aveva «espulso» anche la loro cagnetta Gilda: «Se l’Umberto vuole espello anche me».
Non c’è da meravigliarsi, quindi, se dopo decenni di teste tagliate da Bossi, tocca il turno della ghigliottina per i bossiani. È la storia, bellezza… L’andazzo però non si registra solo alla Lega. Chi non è d’accordo, fuori. Come se il dissenso, dentro un partito, fosse ormai insopportabile. Peggio: chi dissente, boicotta.
Anche dentro la Dc, ai tempi in cui dominava, si odiavano. E si scambiavano insulti che allora parevano cattivissimi. Amintore Fanfani dava della «mammola» ad Arnaldo Forlani e Francesco Cossiga assicurava che Paolo Cirino Pomicino non poteva «fare correnti ma al massimo correnti d’aria» e Ciriaco De Mita infilzava Rosy Bindi: «È una vita che dice cazzate che vengono prese per cose serie, io una vita che dico cose serie che son prese per cazzate». E c’erano nel partito la destra della sinistra, le correnti e le sottocorrenti, le maggioranze e le opposizioni e certi congressi erano così duri da far titolare ai giornali «La notte dei lunghi coltelli». L’idea di buttar fuori chi non era d’accordo, però, non passava per la testa a nessuno. E la fine arrivò proprio quando Rocco Buttiglione decise di buttar fuori gli avversari («L’ospite è come il pesce: dopo tre giorni puzza») e Gerardo Bianco, che lo chiamava «el golpista cileno Roquito Butillone», spiegò che aveva ammazzato la Balena Bianca: «Ha cacciato tutti, porterà il cane Teo per far numero».
Le espulsioni, negli anni buoni, i democristiani le lasciavano ai nemici del Pci, che avevano una lunga tradizione coltivata da Palmiro Togliatti che bollava i dissidenti come «pidocchi sulla criniera di un cavallo» e raccomandava alla Scuola delle Frattocchie (l’avrebbe raccontato Maria Antonietta Macciocchi) di insegnare ai giovani allievi a praticare «la maieutica dell’autocritica non socratica» e disprezzare gli espulsi. Su tutti, ovvio, quanti avevano avuto dubbi sull’invasione dell’Ungheria.
Mai si sono visti tanti espulsi però quanti negli ultimi anni, con una progressiva accelerazione via via che i partiti diventavano sempre più proprietà personali. Espulsioni ufficiali, mascherate, di fatto. Espulsioni sacrosante, obbligate dall’adulterio di un sindaco o un deputato in cambio di poltrone. Espulsioni precipitose decise in fretta e furia per liberarsi di fronte all’opinione pubblica di mascalzoni finiti in manette. Ma soprattutto espulsioni di chi dissentiva dalla linea del Capo.
È accaduto dentro il partito berlusconiano dove a lungo nessuno aveva osato mettere in discussione quello che Cesare Previti chiamava «il centralismo carismatico del Cavaliere». Alle prime contestazioni della «monarchia», crac. Basti ricordare la scena dell’aprile di tre anni fa quando l’allora premier, esasperato dalle critiche di Gianfranco Fini, sbottò: «Se vuoi fare politica lascia la presidenza della Camera». Al che l’avversario saltò su urlandogli in faccia: «E se no, che fai, mi cacci?». Scontro seguito dall’inasprirsi di una guerra frontale conclusa con l’espulsione di fatto dei finiani cui il Secolo d’Italia dedicò il titolo «Good Bye, Lenin!» paragonando la cosa alle purghe del Pci: «Il documento che censura Fini è sinistramente simile a quello che radiò la Rossanda e Pintor». Di più: chi aveva deciso di buttar fuori i finiani rei di «infrazioni gravi alla disciplina» aveva attinto al «Libro nero del comunismo».
Un’accusa rilanciata negli ultimi tempi nei confronti di Beppe Grillo, reo di avere mano a mano messo fuori il consigliere comunale ferrarese Valentino Tavolazzi e quella bolognese Federica Salsi e poi il deputato regionale emiliano Giovanni Favia e quello piemontese Fabrizio Biolè per minacciare infine la mano pesante con chi aveva votato Pietro Grasso al Senato e non avesse seguito l’indicazione del partito in Parlamento…
Accuse alle quali Grillo «l’epuratore» ha risposto sul suo blog con una lista di espulsi altrui: «Ma non era Grillo ad espellere i dissidenti? Sui giornali semmai si legge questo. Espulsa dal Pd l’ex sindaco di Avigliana, con lei vicesindaco e assessore. Acqui Terme: Ferraris e Giglio espulsi dal Pd. Il Gruppo del Pd del IV Municipio di Roma ha deciso di espellere il consigliere Giorgio Limardi a seguito di un ripetuto comportamento difforme alle linee del partito. Mario Russo, Valerio Addentato e Roberto Merlini sono stati espulsi dal segretario del Pd provinciale di Roma...».
Ma è la nemesi storica leghista, soprattutto, a colpire. Quella voglia degli avversari di Bossi di render pan per focaccia al vecchio leader che diceva: «Io sono un segretario semplice che si comporta semplicemente. Se uno pianta casino, lo mando via». E così, dopo aver buttato fuori quasi tutti i fondatori del partito e il primo deputato e il primo senatore e i fondatori della Liga veneta e gli ex ministri Domenico Comino e Vito Gnutti ecco l’Umberto che rischia, dopo l’espulsione ufficiale di Rosi Mauro e quella ufficiosa del figlio Renzo, di vedere espellere anche Marco Reguzzoni e altri fedelissimi mal sopportati da Roberto Maroni e più ancora da Flavio Tosi. Una minaccia che lo ha spinto a sbottare: «Se va avanti così non resterò lì neppure io».
Affari loro? Mica tanto. L’insofferenza crescente dentro i partiti verso chi la pensa diversamente (si veda anche il caso di Matteo Renzi: «Vogliono che me ne vada») non è un problema «privato» di ciascun partito. Magari! Riflette una montante incapacità di capire le ragioni altrui. Di più: il rifiuto di capire le ragioni altrui. E il rigetto schizzinoso di ogni possibile mediazione. Tutte cose che pesano maledettamente su tutti noi.
Gian Antonio Stella