Silvia Truzzi, il Fatto Quotidiano 13/4/2013; Elisabetta Ambrosi, il Fatto Quotidiano 13/4/2013, 13 aprile 2013
DOVE VANNO LE PAROLE?
Ogni anno un sacco di parole muoiono. Requiem, funerali e una sepoltura che le spedisce fuori dal vocabolario. Paradise lost: tra neonati e morituri sostantivi, la lingua s’impoverisce. “Quando scompare una parola è come se il mondo diventasse un po’ più piccolo”, spiega lo scrittore Andrea Bajani, che anche quest’anno ha lavorato con i ragazzi delle scuole superiori torinesi nell’ambito del progetto Bookstock del Salone del libro (al Lingotto, dal 16 al 20 maggio). “E quando muore una parola muore anche l’oggetto o l’idea cui si riferisce: non c’è più bisogno di nominarla. Allora insieme ai ragazzi abbiamo provato a lavorare in direzione contraria, verso un mondo che diventava più grande”. Interrogando il mondo nuovo, sono nati dieci lemmi. Prima il tema, l’idea su cui confrontarsi e discutere. Poi le parole e la definizione. Alla fine a ciascuna nuova arrivata viene dato per padrino un autore, i ragazzi declinano la parola su un testo di questo autore. E alla fine, l’incontro con il “padrino” (o la madrina) al Salone del libro.
“L’anno scorso è stato più che altro un gioco”, racconta un trafelato Bajani (si divide tra gli ultimi preparativi del Salone e la presentazione della versione francese del suo Ogni promessa, a Parigi con Emmanuel Carrère). “Quest’anno i ragazzi e io abbiamo lavorato con maggiore consapevolezza politica. Sapendo di avere dieci cartucce per dire dieci cose”. Ma davvero un dizionario così ricco come il nostro ha bisogno di invenzioni? “Certo che spesso le parole esistevano già! Ma nelle lunghe discussioni con i ragazzi, spesso ci si rendeva conto di sfumature, di significati ulteriori”. E allora ecco il mondo linkotico, ossessionato dalla nevrosi del contatto, dei social network. Dove il successo si calcola sul pallottoliere dei follower. Eppure (o proprio per questo?) i legami veri fanno una gran paura. Come le parole “per sempre”. Non è una società fertile quella di questo neo-lessico: è monetica e governata da una demolitica, dove il prefisso non indica il popolo ma la vocazione sfascista della politica. Si sovravvive, perché l’imperativo è quello economico di avere più che di essere. Ma si svive anche perché di noi non si riesce a lasciare traccia o segno, in assenza di futuro. O meglio con davanti un disfuturo, una disfunzione della percezione del tempo. Non abbiamo desideri, ma eterideri, la voglia di essere altro. O il desiderio di un altro. Mangiamo onnifood in un Paese che puzza di fritto. I tipi umani che s’incontrano non sono molto incoraggianti. Sono i subizionisti, variazione aggressiva sul tema del vittimismo, ovvero coloro che usano le sciagure come armi, anche di ricatto. E allora il “me tapino” di Paperino è sì una dichiarazione di resa, ma insieme una pistola che minaccia. Poi ci sono le disonestar, crasi geniale che immortala i nuovi eroi. “Una delle cose più impressionanti”, dice ancora lo scrittore, “è come tutte queste parole si addicano perfettamente a Berlusconi, anche se è solo l’esempio più facile. Per esempio “subizionista”: subito ci sono tornate in mente le lamentele sulle congiure della magistratura. E “disonestar”: di fronte agli scandali, da un lato c’è il timore che possano far perdere consenso. Invece violare le regole o mistificare diventano improvvisamente comportamenti apprezzati”.
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AL TRIONFO DELLE ‘WORDS’ RESISTONO SOLO LE PAROLACCE -
Ora a te dico Jovanotti, uomo nobile e vissuto che stai a Cortona, perché devi chiamare band la tua banda? Io ti prego, se la banda è viva, chiamala banda!”. L’accorato appello a favore di quella “meraviglia luccicante di suoni e alamari”, e di tutte le parole italiane, mandate in pensione dalle words, i loro sinomini inglesi, viene da un pamphlet a firma di Roberto Nobile, attore, sceneggiatore, scrittore. Che, nel libro L’ospedale della lingua italiana (Sicilia punto L edizioni), immagina di ricoverare le parole agonizzanti: soppiantate, per lo più, dalla (non) equivalente versione anglofona. “Non è possibile che il giorno fondante della democrazia si chiami Election day”, dice l’autore, che da vent’anni lotta contro la distruzione della nostra lingua. E supplica gli omosessuali (non “gay”) di non fare outing coi genitori (“semplicemente confessatelo; di sicuro capiranno”).
Apre la parata delle parole defunte il malinconico amore, oggi love, “ferita da cronachisti assatanati di tragedia, e affogata nei “c’è posta per te”. Lutto anche per la pace, “prestata al keeper di turno (specie il peace keeper, che sa tanto di “guardiano del piscio”, visto il suono). Campana a morto per la libertà, “parola tragica e nobile”, invocata da un popolo della libertà che l’ha scambiata per free (gratis); ma anche per la felicità, dove contava “talento e passione”, mentre la “happiness la compri al supermercato”.
Scomparsi i valori, ma anche gli oggetti. Come il negozio, sbaragliato dai vari market, discount, e store, “che non picchia mai da solo perché è in franchising”. Oppure l’automobile, “nobildonna che ebbe ebbrezze dannunziane” e oggi muore di rabbia perché la chiamano car (cioè carro, con annesse cacche e muggiti). Morta anche la notizia, obsoleta e grigia, soppiantata dai fuochi di paglia delle news. E insieme a lei la rivista, al cui posto c’è il magazine, e pure la memoria, “infaticabile e misericordiosa”, mentre la “memory fa tanto la sborona, ma è una passacarte”.
Addio anche alla scarpa, col suo pedigree di puzza e di fango, e il suo corredo canoro (“Scarpe rotte, eppure bisogna andar”): oggi si dice shoes. E alla spiaggia, quella libera e pubblica - privata e attrezzata si chiama beach - e insieme a lei l’estate, “che non ce l’ha tanto con summer, le rode solo che l’hanno retrocessa ad attributo (summer card, summer school)”. Funerale anche per centralino, che un tempo si chiamava “mentre ora chiamano te, per venderti una patacca e si chiama call center” e per l’aristocratica coppa, soppiantata da “coppetta de gelato co’ tre gusti”. Riti mortuari anche per il corpo, “trattato come terreno edificabile senza piano regolatore, perché al body gli puoi fare quel che vuoi, sciek ior bodi!”. E poi ci sono le parole-ruolo: come direttore, “ burbero coi sottoposti, ma cuor d’oro, tutto casa, famiglia e sveltina con la segretaria”, soppiantato dal manager. O l’istruttore, capitolato di fronte al trainer. Brutta fine anche per le autorità, quelle con la “panza”: fuggite “inciampando sulle sottane e le sciabole”, si sono ricicciate in authorities, che “contavano poco allora, non contano un cazzo adesso”.
In questo buio assoluto, però, una luce ancora è accesa. Perché finché resteranno “le parole porche legate a discorsi porci”, “fino a quando cioè i carbonari del sesso scoperanno in Italiano, allora c’è speranza”. E poi, ogni tanto, la sparizione fa pure comodo. Perché se l’uomo non c’è più, che se la veda the man, là fuori, “con le femministe agguerrite, le manager concorrenziali, le virago arrapate. Uomo è mammone”.